È un'altra parabola di formazione l’opera seconda di Eliza Hittman, già dietro la macchina da presa con It Felt Like Love (2013) e ora premiata al Sundance 2017 per la regia di Beach Rats. Un altro coming of age lungo il tempo di un’estate, passata a bighellonare tra Brooklyn e il lungomare psichedelico di Coney Island, con i suoi neon intermittenti, i luna park decadenti e le sale giochi affollate di adolescenti in branchi. È questo l’habitat naturale di Frankie, 19 anni, un padre malato di cancro in casa e una gang di perdigiorno come compagni di sballo e bevute. Ma anche un segreto da nascondere: il sospetto di un’omosessualità latente e ancora incerta, custodito gelosamente sul computer di casa sotto forma di selfie ammiccanti per siti di incontri online.

Beach Rats, infatti, comincia proprio come un desktop movie, con Frankie in live chat con uomini più maturi di lui, affascinati dalla sua bellezza e dalla sua gioventù. D’altronde Frankie se lo sente dire da continuo quanto è bello, dai partner di una notte così come dalla ragazza con cui prova – con scarsi risultati – ad instaurare una relazione eterosessuale. Ce lo dice anche Eliza Hittman, che sembra non stancarsi mai ammirare il suo giovane protagonista, cui presta il volto il londinese Harris Dickinson: Hittman ne circonda il corpo con una macchina da presa mobilissima, quasi sempre a mano, francobollata al viso e agli addominali di Frankie, che fanno bella mostra di sé stretti in canottiere striminzite e ammantati delle tinte fluo della fotografia lisergica di Hélène Louvart. Una fotografia che con le sue atmosfere sospese e sognanti, non esenti da una certa patina indie, sembra fare il paio con la vita sregolata di Frankie, costantemente sotto effetto di marijuana e pasticche.

Quello di Hittman, dunque, è uno sguardo esplicitamente voyeurista, colmo di tensione erotica, financo mercificante, in cui i dialoghi e la linea narrativa lasciano volentieri il passo a un ritmo più ondivago e personale. Ad emergere, a discapito dell’introspezione psicologica, è allora la centralità dei corpi – ora celebrati, ora smembrati dal montaggio, un po’ come in Moonlight, che d’altra parte è anch’esso un film di identità irrisolte e mascolinità divergenti – che abitano questa summer of love vitale e dolorosa.