Chissà cosa direbbero i dirigenti Netflix dell’ultimo film di Nanni Moretti davanti al copione di Beau ha paura. Sicuramente, in quest’ultimo, non manca il momento “What the fuck”. Anzi, verrebbe da asserire che il mastodontico film di Ari Aster cerca di stupire e confondere continuamente lo spettatore. Quello che per tre ore si dispiega sul grande schermo è un lunghissimo ed esagerato incubo. Sia chiaro, qui nulla tende al reale ed è pressoché inutile cercare di capire cosa effettivamente appartenga alla vita di Beau Wessermann (Joaquin Phoenix).
Tutto nel film - sia i personaggi ancillari, i luoghi o le parossistiche visioni falliche – concorre a manifestare le paure, le ansie e i problemi psicologici di Beau. Quarantanovenne solitario, vergine e disturbato, che vive confinato in una fatiscente palazzina, il più lontano possibile dal mondo esterno: folle e pericoloso. D’altronde, là fuori ci sono uomini pronti ad accoltellarti, morti disseminati per le strade, gente desiderosa di occuparti casa o in trepidante attesa di postare sui social il suicidio di uno sconosciuto.
Ma la vera e propria Odissea messa in scena da Aster inizia quando il protagonista deve fare i conti con l’incubo peggiore di tutti: il viaggio verso la casa della madre. Una serie di sfortunati eventi, tra cui la presunta morte della figura materna, lo trascina all’interno di un tunnel senza fine, in una vorticosa discesa che lo porta a confrontarsi con le sue stesse idiosincrasie.
Il fil-rouge con le due precedenti opere del cineasta - Hereditary – Le radici del male e Midsommar - Il villaggio dei dannati - è senz’altro nelle tematiche. Difatti, Aster affronta nuovamente i traumi familiari e il lutto. Ma se per le altre pellicole riusciva, mediante anche gli stilemi del genere horror, a sviscerare le questioni con una forza sovversiva ed angosciante che spingeva lo stesso spettatore ad un’autoanalisi, nel terzo lungometraggio sembra perdersi anche lui tra i gironi infernali di Beau.
Il film, che originariamente doveva chiamarsi Disappointment Blvd, è una commistione esasperata di generi e toni, passando dall’horror, al grottesco, alla black comedy fino all’animazione - live action e non solo. Un tipo di storytelling che sta emergendo sempre di più all’interno delle produzioni marchiate A24 (si pensi al fortunato Everything, Everywhere All At Once). E seppur l’irriverenza formale dell’ultimo Aster risulti degna di nota dal punto di vista estetico e tecnico – in questo senso sono notevoli i cambi di stile e di tono, l’utilizzo degli spazi, la dimensione teatrale della vicenda – la medesima finisce con il sovrastare il contenuto stesso della storia.
Sono quattro i blocchi narrativi in cui è scomponibile il film (l’incipit e la partenza, l’incontro/soccorso con la bizzarra famiglia, il bosco e l’arrivo alla casa natia), entro i quali il cineasta tenta di raccontare le paure di un inetto e il tortuoso rapporto con una madre ingombrante e castrante attraverso gli occhi e la psiche dello stesso. Ma se sulla carta questo dovrebbe essere un film estremamente intimo e delicato (si parla pur sempre di psiche e disturbi mentali), rimane un film freddo in cui è estremamente difficile entrare in empatia con il personaggio.
Probabilmente, proprio perché da spettatore si cerca di srotolare questa intricata matassa fatta di parossismi, momenti onirici, personaggi bizzarri, teatri animati, falsi (?) ricordi, alla snervante ricerca di un filo logico. E con la nostra mente impegnata a vagare tra i labirinti edificati da Aster, la conseguenza non può essere altro che un distacco emotivo dal Beau di Phoenix. L’attore che ha già familiarità con la messa in scena di personaggi insani, – ad esempio il Joker di Todd Philipps o il Freddie Quell in The Master di Paul Thomas Anderson – non ha alcun problema a calarsi nelle vesti (o nel pigiama) di Beau mettendo a nudo, in tutti i sensi, le sue fragilità emotive.
Peccato, però, che per tutto il dispiegamento della diegesi non ci sia alcun tipo di evoluzione del personaggio: rimane succube degli eventi, non arrivando mai a una presa di coscienza di sé, dei propri mommy issues e delle proprie paure. Alla fine dei conti rimane un guilt trip, in particolare di autocondanna e autoindulgenza tipiche del complesso edipico, estenuante sia per chi è in sala che per il protagonista.
Sebbene la prima parte risulti convincente fin dai primi minuti, partendo con lo shock per eccellenza, ovvero la nascita (come nel recente film di Inarritu, Bardo) e generando poi un senso di angoscia e tensione, Aster sembra voler mettere troppa carne al fuoco perdendosi all’interno di un’imponente Babilonia filmica. Un nucleo tematico semplice che viene risucchiato dal troppo artificio fatto di accumuli, (auto) citazioni e voli pindarici.
Beau ha paura è senza ombra di dubbio un’opera sui generis, eversiva e visionaria, che non lascia indifferenti dopo la sua visione. Nonostante le fascinose trovate fotografiche o registiche e le performance attoriali, il film pecca di smodata ambizione. Di certo, Ari Aster rimane una delle voci più intriganti e innovative del cinema contemporaneo e chissà se dopo queste tre ore di puro esorcismo dei traumi, il cineasta verrà difeso o meno dal suo pubblico o se lo stesso assisterà totalmente inerme come quello dello stravagante tribunale nell’ultima sequenza dell’epopea psichedelica.