È successo. Dopo il lungo susseguirsi di voci che hanno accompagnato il riavvicinamento di Tim Burton ad uno dei suoi lavori più apprezzati, ecco giungere su grande schermo il tanto temuto quanto agognato sequel del cult datato 1988 Beetlejuice.  

Titolo manifesto della sua visionarietà anarchica, tanto cupa quanto ironica, il secondo lungometraggio del regista californiano è divenuto, nell’intervallo pluridecennale intercorso tra la sua uscita e la realizzazione di questo sequel, un oggetto di culto per gli estimatori del gotico postmoderno. Un distillato di elementi puramente burtoniani, profondamente devoti ad un cinema di genere di matrice artigianale che già all’epoca si stava inesorabilmente avviando verso l’estinzione.

Una visione della settima arte che sul finire del secolo scorso ha trovato proprio in Burton uno dei suoi più strenui difensori, attraverso un connubio di nostalgia e reinvenzione dei canoni in grado di plasmare un’estetica tanto inconfondibile quanto radicale e difficile da adattare ai meccanismi produttivi del cinema americano contemporaneo.

Le ultime opere di questo straordinario autore sono delle tracce emblematiche di questo rapporto stridente, in cui un’irriducibile vocazione artistica, ok, forse un po’ appannata ma ancora presente, si trova a boccheggiare sotto il peso opprimente di budget e adeguamento a ad una più convenzionale idea di intrattenimento. Reazioni di freddezza hanno accompagnato negli ultimi anni non solo le imponenti operazioni a bordo del galeone Disney come Alice in Wonderland (2010) e Dumbo (2019), ma anche progetti dal taglio maggiormente sofisticato (il triste esito del dramma biografico Big Eyes), i quali sottolineavano una sofferenza creativa da parte del regista nei confronti dei contesti che hanno portato alla realizzazione dei suoi ultimi lavori.

Assetti industriali che Burton non ha mai rinnegato, ma verso i quali ha mostrato delle evidenti difficoltà di adattamento e che conducevano a delle tutt’altro che trascurabili perplessità circa il rispolvero dell’immaginario di Beetlejuice all’interno di un ambiente decisamente mutato rispetto a quello da cui aveva avuto origine.

Partendo dunque da queste premesse non esattamente stimolanti, eccoci a rendere conto del risultato di un’operazione che, pur non sovvertendo completamente le modeste aspettative, riesce se non altro a non fallire nella sua ambizione di non sfigurare in quanto (ennesimo) tributo nostalgico verso il cinema di fine Novecento.

La prima mossa nella direzione di questo risultato è stata il ritorno di alcuni, fondamentali, componenti del cast originale, in grado di confermarsi ancora efficaci nei rispettivi ruoli a oltre trentacinque anni di distanza. Michael Keaton coglie questa occasione per ribadire quanto la vena istrionica rimanga l’aspetto più apprezzabile della sua recitazione, laddove invece Catherine O’Hara e Winona Ryder si limitano ad omaggiare i rispettivi personaggi con interpretazioni centrate anche se non altrettanto sentite.

Riproponendo questi corpi attoriali attraverso un make up mirato ad annullare la distanza temporale intercorsa dall’opera originale, Burton punta a ricrearne le stramberie dark e ricomporre quella irresistibile commistione tra immaginario mortifero e narrazione goliardica. Ancora una volta si intuisce come le esigenze di una struttura più definita (con risultati decisamente opinabili circa il funzionamento delle numerose sottotrame, ma non è certo questo ciò che interessa maggiormente) e l’impiego tecnologie digitali risultino dei punti deboli nell’evocazione del grottesco low budget che ha caratterizzato le sue opere migliori.

Ma lo sforzo nel ricercare una palpabilità visiva da tempo perduta, sorretta da un ritorno a temi e ambientazioni pienamente affini allo stile burtoniano, aiuta a ritrovare sprazzi della brillantezza da tempo sepolta e a rendere questo Beetlejuice Beetlejuce un sequel in grado di omaggiare il capolavoro da cui è tratto in modo leggero e giocoso.

Consapevole che il mondo sia cambiato, così come lo sguardo degli spettatori, Burton cerca il proprio spiraglio di libertà tornando alle origini e rispolverando il proprio amore verso la sgangherata tenerezza che si cela nella mostruosità. Le scenografie distorte dal gusto squisitamente espressionista, le incalzanti musiche del fedelissimo Danny Elfman, il grottesco come chiave per il sovvertimento degli equilibri del mondo e strumento di rivalsa per gli emarginati.

Tutti elementi che tornano ad uso e consumo dello spettatore, cui rimane la possibilità di ripudiarli come dei banali tentativi di adescamento o di abbracciarli, accettando il compromesso attraverso cui il cinema di Tim Burton può esistere in questo momento, con i suoi limiti e la sua ammirabile ingenuità nel voler ancora essere qualcosa che forse vive solo nella sue opere del passato e nella memoria di chi le ha amate infinitamente.