Basterebbe l’aneddoto riportato in apertura dal fittizio Jess Oppenheimer di John Rubinstein per riportare la dimensione del successo che la sit-com I love Lucy ebbe negli Stati Uniti di inizio anni Cinquanta. Se anche i grandi magazzini, le cattedrali nel Novecento, arrivano a modificare i propri orari di apertura pur di non sovrapporsi ad un evento televisivo, significa per quest’ultimo aver creato un legame con il proprio pubblico in grado addirittura di modificare le sue abitudini quotidiane. Tale è stato l’impatto della serie ideata da Lucille Ball e Desi Arnaz, caposaldo d’intrattenimento per il Network CBS e prototipo di quello che, nell’ambito della serialità televisiva, si sarebbe imposto nei decenni successivi come il genere americano per eccellenza.

Partendo da questo presupposto non stupisce quindi che Being The Ricardos, film che sviscera i retroscena di uno dei prodotti cardine della cultura pop Made in USA, porti la firma di Aaron Sorkin. Nella stessa natura eterogenea di film basato su vicende riguardanti la produzione televisiva, questo lavoro riflette l’ambivalenza che ha segnato la carriera del suo autore, la quale è però rimasta sempre incentrata su un medesimo, solidissimo, blocco tematico. Nel suo percorso in veste di sceneggiatore televisivo (da Sports Night a The Newsroom, passando per West Wing) e cinematografico (si pensi principalmente ai biopic su figure iconiche come Mark Zuckerberg, Billy Beane e Steve Jobs) Sorkin ha saputo elaborare un’acuta quanto urticante analisi sui fenomeni che hanno maggiormente segnato la modernità statunitense (e non solo), attraverso un approccio ormai proverbiale che, ben lungi dall’agiografia, fa leva su un’ironia colma di sferzate polemiche.

Con Being The Ricardos, suo terzo lungometraggio da regista, questo mosaico sull’americanità viene impreziosito da un nuovo scintillante tassello. I Love Lucy diventa quindi l’ennesimo pretesto tramite il quale soffermarsi sull’ambiguità che permea i retroscena del successo. Una cronometrica struttura a incastri porta all’emersione di due linee temporali. Mentre la secondaria ripercorre l’incontro tra i due protagonisti, il loro sodalizio sentimentale e artistico, fino all’approdo in tv, quella portante è invece circoscritta in una specifica settimana del 1952, in cui l’intero progetto rischiò il naufragio a causa delle accuse di filocomunismo mosse nei confronti di Lucille Ball in pieno periodo maccartista.

Essa permette non solo di tracciare una filologica ricostruzione del regime produttivo della sit-com, ma anche di individuarne le forze creative operanti e l’aspetto contestuale di allineamento all’ideologia di istituzioni e finanziatori, nonché la salvaguardia dell’immagine pubblica delle personalità coinvolte. Contro l’ondata conservatrice di cui showrunner e autori si fanno impacciati portavoce, si staglia l’integerrima figura della stessa Ball; stoica paladina tanto della propria reputazione quanto della qualità che l’opera di cui è protagonista deve mantenere di fronte ai milioni di fedelissimi spettatori. La caparbietà dell’attrice nel rivendicare la propria libertà artistica di fronte alle imposizioni degli interlocutori diviene l’elemento preponderante su cui si delinea quello che, nell’analisi di I Love Lucy all’interno del suo saggio relativo alla sit-com, Luca Barra definisce “un articolato intreccio tra commedia e vita”.

Partendo dalla stretta connessione tra la vita reale dei personaggi (Lucille Ball e Desi Arnaz) e quella delle loro controparti su piccolo schermo (Lucy e Ricky Ricardo), l’ultimo film di Sorkin ci restituisce una delle serie tv più popolari di sempre sotto una duplice ottica. Da un lato un progetto autobiografico d’avanguardia per l’America dell’epoca, nella sua fedele volontà di proporre un rapporto coniugale multietnico; dall’altro una sua semplificazione contraffatta, privata di tutte le zone d’ombra che guastavano la vera relazione tra Ball e Arnaz.

In questa attenta ricostruzione, che esamina la sbiadita linea che separa realtà e finzione, un ruolo preponderante è ricoperto dagli interpreti Nicole Kidman e Javier Bardem, efficacissimi nel riprodurre le varie sfumature che differenziano i rispettivi personaggi dalle loro caricature televisive. Perché l’arma segreta di Sorkin risiede ancora una volta nella raffinatezza di un tessuto dialogico in cui ogni scambio viene caricato di contenuti che esulano dallo stretto significato delle parole, e che verrebbero annichiliti da prove attoriali inadeguate. In questo senso è doveroso elogiare anche la maturità registica dell’autore, che dopo l’acerbo Molly’s game (2018) aveva mostrato una mano ben più solida con l’ottimo Il processo ai Chicago 7 (2020).

Rispetto a quest’ultimo, Being the Ricardos rimane un’opera meno ambiziosa ed eclatante, ma nonostante ciò in grado di mantenere una stupefacente continuità con la filmografia che lo ha preceduto. In un’epoca in cui pare sempre più difficoltoso comprendere le infinite declinazioni del reale, il cinema di Sorkin acquisisce una fondamentale funzione epifanica, uno specchio del presente in cui trovare riflesse le nostre vite, per soffermarvisi nella speranza di scorgere qualcosa che sfugge ad una visione diretta.