Gli anni Settanta furono un periodo difficile per l’india: iniziati con la guerra contro il Pakistan, attraversati da forti repressioni governative che portarono alla sconfitta elettorale di Indira Gandhi, al potere da oltre dieci anni, e con essa un ulteriore periodo di incerta transizione. A modo loro sia Bhumika (The Role) che Kummatty (The Boogeyman) sono figli di quei tempi ansiogeni e riflessioni sul valore della libertà. Bhumika è basato sull’autobiografia dell’attrice Hansa Wadkar, in attività per oltre trent’anni e conosciuta prevalentemente per le sue interpretazioni in lingua marathi.
Attraverso la sua storia il regista Shyam Benegal mette in scena una condizione femminile sofferta, attanagliata dai ruoli assegnatole cui il titolo si riferisce. Fin dall’inizio della sua carriera appare evidente l’asimmetria fra i personaggi che interpreta, spesso romantici e melodrammatici, e i ruoli che è costretta ad interpretare nella vita: figlia, moglie e infine madre. Non solo ciascuna di queste condizioni la rende infelice in maniera diversa, ma ogni suo tentativo di smarcarsene non produce altro effetto che riportarla al punto di partenza, quando non ancora più in basso. La sua è una storia ciclica che si avviluppa inesorabilmente su sé stessa, e nell’amaro finale lo sguardo della donna suggerisce che anche le generazioni successive seguiranno lo stesso itinerario.
Ciclica è anche la storia dell’India, che affianca quella dell’attrice attraverso notiziari perlopiù radiofonici, dalle tensioni col Pakistan in Kashmir che sfoceranno in guerra alla fine degli anni Quaranta alla morte di Stalin, passando per il generale e futuro presidente pakistano Ayub Khan, anch’egli fautore di una guerra nel ‘65. Il proseguimento ideale di questa traiettoria storica potrebbe essere l’ennesima guerra indo-pakistana del ’71 o i tumulti interni del ’75, che probabilmente il regista rileva come l’ennesimo anello di una catena destinata a tornare eternamente su sé stessa. Ci spostiamo dalle metropoli del Maharashtra alle campagne erbose del Malabar con Kummatty, e dalla sofferta biografia di un’attrice alla divertita trasposizione di un racconto popolare. Il kummatty è un incantatore errante che ogni anno gira per i villaggi e intrattiene i bambini con canti e danze, li trasforma in animali e poi li riporta alla loro condizione umana.
Questa entità metà sciamano e metà menestrello, più simile al canonico scemo del villaggio che a uno stregone, risulta subdolamente ipnotica quando intona filastrocche ripetitive seguendo il ritmo dei suoi sonagli, ed è così che adesca i ragazzini e li convince a ballare con lui. Uno dei bambini si allontana anzitempo dal kummatty, e deve dunque aspettare un anno prima di poter tornare umano, periodo nel quale realizza l’importanza della libertà, essendone stato privato. Di nuovo ci troviamo davanti a un tempo ciclico, segnato da un attesa spasmodica e un risultato incerto, dall’ansiogena consapevolezza che dietro a figure benevole all’apparenza possano celarsi inganni e privazioni.