Abbandonare strade battute comporta sempre un certo rischio, ma non sono mancati autori volenterosi di accollarsi il peso della sfida. Un caso meno studiato in occidente è quello del Parallel Cinema indiano, dichiarazione d’intenti prima ancora che movimento artistico, di cui sia Bhuvan Shome che Uski Roti fanno parte. L’idea di partenza è semplice (sulla carta): trovare un nuovo linguaggio espressivo per raccontare nuove storie, per una nuova nazione.

Gli eventi narrati in Bhuvan Shome sono tutto sommato convenzionali e riguardano un impiegato delle ferrovie di mezza età che decide di rompere la monotonia quotidiana partendo per una battuta di caccia. Seguiamo allora il povero signor Shome perdersi nelle aree rurali del Gujarat, territori poco avvezzi ad un uomo abituato a seguire dei binari, subendo peraltro lo sberleffo degli uccelli che invano cerca di cacciare. A meritare particolare attenzione non è però la trama pirandelliana-farsesca di un uomo inaridito dal lavoro d’ufficio che riscopre la gentilezza perduta, quanto le ardite scelte di regia e montaggio a cui l’opera deve il suo prestigio. L’immagine ricorrente dei binari in percorrenza apre il film e lo puntella per tutta la lunghezza - talvolta solo acusticamente, come nella sequenza dello scontro col bufalo – donandogli di volta in volta significati diversi ma sovrapponibili: ovviamente la modernità ma anche l’omologazione e l’eterna, ossessiva ripetizione di un percorso già tracciato, la logorante consapevolezza del dovere quotidiano cui non si può evadere per molto.

A impreziosire l’estetica dell’opera sono poi dei particolarissimi tagli dell’inquadratura, dettagli allungati del viso di Shome in freeze-frame, a metà fra le mascherine del cinema muto e gli sguardi dei pistoleri di Sergio Leone.  Contribuiscono infine ad esasperare il lato patetico dell’impresa del signor Shome tanto gli inaspettati inserti d’animazione, che parodizzano la sua routine lavorativa, quanto l’espressività facciale di Utpal Dutt, quantomai azzeccato nel ruolo principale.

Decisamente meno appariscenti ma più ardite le scelte compiute in Uski roti, che sembra quasi volersi disfare dell’impalcatura narrativa a favore di un’estetica del vuoto, dell’esasperante lentezza del tempo. Al centro del film c’è la logorante e sofferta quotidianità di due sorelle, la prima che consegna tutti i giorni il pranzo all’ingrato marito, autista d’autobus perennemente fuori casa, la seconda alle prese con le inopportune attenzioni dello zio. Quella di Uski roti è una scrittura essenziale, distesa, emotiva prima ancora che visiva, in cui il dialogo pare quasi disturbare l’inquieto silenzio che permea l’opera. Quello compiuto dal regista, Mani Kaul, è un sabotaggio discreto alle norme vigenti del linguaggio cinematografico, ma alla fine vinse la scommessa e il suo lungometraggio d’esordio si aggiudicò prestigiosi riconoscimenti in patria.