Billy sta giocando a nascondino insieme al padre, che, però, non va a cercarlo. In quel momento - quando è ancora un bambino - inizia a realizzare la “grandezza” degli spazi vuoti e le conseguenze di un’assenza. Iniziano i primi attacchi di panico, a cui non sa dare una spiegazione e che la madre riconduce alle “troppe” energie che ha.

Ora Billy ha diciannove anni e quegli spazi sono ancora più vuoti. Li avverte occupandosi della madre (instabile) che ogni giorno ne combina una diversa; provando a non farsi sopraffare da storie d’amore effimere e stando vicino al suo migliore amico - che ha otto anni - e che, un giorno, ha intenzionalmente smesso di parlare. Arriva, poi, nella città del nord Italia in cui vive Zippo, rocker scomparso da anni e suo idolo d’infanzia, fonte di ispirazione - quando aveva appena nove anni - di un podcast musicale di successo. È l’occasione per confrontarsi con il sé del passato e capire in che direzione orientare il sé del futuro.

Ci sono una serie di domande irrisolte che impediscono a Billy di crescere. Domande che prova a porre a Zippo (una figura che rappresenta una sorta di guida e di riferimento), ma che sono troppe complesse per trovare delle risposte esaustive. “Ci vuole più coraggio ad andarsene o a restare?”, ad esempio, è uno degli interrogativi posti. Bisogna capire chi si lascia indietro quando si va via, se si è davvero convinti di andarsene o se si pensa solo di volerlo, dove si vuole andare dopo. Billy vorrebbe avere punti fermi per colmare - in parte - i “vuoti” della sua infanzia che sono cresciuti con lui e che hanno creato paure più grandi di quelle di un bambino. Paure più adulte, accentuate - proprio - da quell’etichetta di “bambino prodigio”.

Emilia Mazzacurati (classe 1995, al suo esordio alla regia) costruisce un - piccolo - mondo in cui muoversi con disinvoltura. Sembra ispirarsi a Stand by Me o American Graffiti, ma anche al più recente Boyhood (di cui, però, non adotta la scelta di seguire - letteralmente - tutte le fasi di crescita di un personaggio) e si muove sicura di sé, consapevole del punto di partenza e di quello di arrivo. Per certi versi, l’atmosfera sembra persino somigliare a quella di Stranger Things.

Si avvale di un cast (Gassman, Signoris, Battiston) che le dà ancora più forza e non azzarda, non (pre)fissandosi modelli irraggiungibili. La pellicola, evento speciale di chiusura del 41esimo Bellaria Film Festival, si focalizza sugli incontri - e sugli spazi - tra più solitudini, che non sempre trovano compiutezza legandosi. Due diverse reazioni al dolore, infatti, non sono per forza capaci di proteggersi a vicenda, di toccarsi e non respingersi. Di sentirsi all’altezza, anche per una volta soltanto.

“Bisogna pur credere in qualcosa, anche se non esiste”, dice la madre a Billy. Questa, sembra essere la stessa constatazione che ha permesso alla regista di portare avanti il suo progetto apparentemente focalizzato su un unico personaggio, ma, in realtà, corale e di fare della semplicità la sua inattaccabile cifra stilistica. Semplicità - e modestia dei mezzi - che rimandano anche alla fotografia di Luigi Ghirri, a cui la regista ha espressamente dichiarato di ispirarsi. Dimostrare di credere fortemente in qualcosa è un bel modo per esordire: Emilia Mazzacurati (figlia di Carlo) convince per la (sincera) intenzione di voler dire la sua, senza chiedere altro in cambio se non essere presa sul serio.

È un po’ quello che chiede anche Billy, costantemente circondato da adulti irrisolti che ancora non hanno realizzato di essere cresciuti. La regista sembra voler fare lo stesso, facendo sentire la sua voce, costruendo uno spazio in cui crescere e riconoscersi.