Cinque anni dopo il suo ultimo documentario (+ o – il sesso confuso. Racconti di mondi nell’era AIDS, scritto e diretto insieme a Giulio Maria Corbelli), Andrea Adriatico torna con un interessante spaccato di storia bolognese. Proiettato in questi giorni al Biografilm Festival, il documentario del regista abruzzese racconta l’intera storia del Cassero, primo centro italiano LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender): dal Collettivo Frocialista Bolognese del 1977 nato da un’idea di Samuel Pinto (che poi cambiò nome in Circolo 28 giugno), passando per la conquista di Porta Saragozza, fino ad arrivare ai giorni nostri, in Via Don Minzoni, a due passi da Porta Lame.

Torri, checche e tortellini narra il susseguirsi cronologico degli eventi attraverso la testimonianza diretta, in modo che il racconto prenda corpo di bocca in bocca. Chi come il sottoscritto non ha vissuto gli anni Ottanta in maggiore età non può neanche lontanamente immaginare di cosa erano capaci questi ragazzi. Il Cassero non era solo un centro per accogliere gli ultimi, i diversi, i reietti, e farli sentire al sicuro da un bigottismo reazionario giudicante. Non era solo una X-Mansion dove gli X-Men potevano trovare rifugio, per fare un parallelo con un fumetto che non ha mai nascosto di essere spietata metafora del nostro mondo. Ma una meravigliosa “gabbia di matti” in cui il dibattito sui diritti civili dell’omosessuale era sempre effervescente, in cui “attività culturali e politiche si mescolavano al più oltraggioso divertimento in un’idea diversa di aggregazione e anche di battaglia”, e di politica si discuteva eccome, l’attualità era sempre all’ordine del giorno. E poi c’erano loro: le improvvisazioni teatrali.

Adriatico riesce a recuperare vecchi filmati amatoriali di quelle esibizioni e a salvarle dalla polvere depositata sulle VHS. È in quei lampi di genio goliardici dall’irriverenza pura e sfacciata che possiamo realmente cogliere l’essenza di un luogo in cui la perspicacia non maschera le proprie stravaganze, ma ratio e autoironia vanno a braccetto in un grottesco balletto di danza classica che pare diretto da John Waters. Dice bene il comico Alessandro Fullin, quando nel film descrive teneramente ciò che facevano come “uno spreco totale di intelligenza”.

Torri, checche e tortellini è la bandiera di una lotta e, in ultima istanza, di una richiesta politica: che venga modificata la targa presente in Porta Saragozza che non fa menzione degli anni in cui il Cassero ha avuto sede lì. Adriatico e i suoi amici chiedono ai bolognesi di non dimenticare che oltre alle tre “T” di torri, tette e tortellini, ormai anche la “C” di checche fa parte della loro storia (la canzone di Francesco Guccini utilizzata come colonna sonora serve proprio a riportare l’intero discorso su tale contesto).

Se il bellissimo Pride di Matthew Warchus raccontava per una volta di un piccolo trionfo tra le innumerevoli sconfitte e tristezze legate alla questione dell’omosessualità (e noi italiani dovremmo saperne qualcosa viste le recenti “manifestazioni di civiltà” delle Sentinelle in Piedi), nel film di Adriatico si avverte un senso d’amarezza finale legata al pensiero che la lotta non ha mai fine in un Paese in cui l’influenza della chiesa è sempre dietro l’angolo. Sta allo spettatore scegliere se continuare a stare a guardare o passare all’azione. Perché come ha ricordato il regista durante la presentazione della pellicola, non è con i “mi piace” cliccati sui social network che si fa la rivoluzione.