All’origine di Glory c’è la cronaca. Più precisamente alcune notizie recenti che i registi (i premiatissimi Kristina Grozeva e Petar Valchanov, già autori di The Lesson) hanno rielaborato in una narrazione debitrice alla realtà dei singoli ma rivolta ad un discorso collettivo sulla nazione bulgara. Occorre tenere conto di qualche coordinata sociopolitica per capire il contesto: governato dal 2009 (seppur ad intermittenze) da Bojko Borisov, che attualmente è alleato con i nazionalisti, attraversato dalla corruzione a tutti i livelli e con oltre un quinto del Paese sulla soglia della povertà. Senza avere presente il quadro non si può entrare davvero nella storia di Tsanko Petrov, ferroviere balbuziente e quasi indigente che trova molti fasci di banconote abbandonati sui binari.
Dopo averli consegnati alle autorità, viene trasformato in eroe dall’ufficio stampa del ministero dei trasporti col solo obiettivo di occultare mediaticamente sia una scomoda inchiesta giornalistica che l’annoso blocco degli stipendi dei ferrovieri stessi. Poiché il ministro deve premiarlo con uno swatch in diretta televisiva, Tsanko viene privato da Julia Staykova, la cinica pr del ministero, dell’orologio regalatogli dal padre: non lo rivedrà più, forse. Più che un MacGuffin, questo oggetto è il vero protagonista del film: compare sin dalla prima immagine, comunicandoci la monotonia esistenziale e lavorativa dell’uomo; lascia il segno sulla pelle del polso non abbronzato, manifestando quanto l’assenza, oltre che sentimentale, sia sofferta a livello epidermico, come se il cimelio di famiglia fosse un’essenziale propaggine del corpo; provoca la kafkiana discesa negli inferi perché, diventato introvabile, viene maldestramente sostituito con uno simile, costringendo il ferroviere – è il caso di dirlo – a percorrere un binario morto che porta verso il dramma.
Con una visione più impregnata di senso della giustizia che di manicheismo, Glory è dominato da due poli opposti, inconciliabili, estremi: da una parte, il trasandato e disgraziato Tsanko, solo al mondo, sfruttato da chiunque, progressivamente condotto sulla via dell’esasperazione; dall’altra, l’algida e feroce Julia, che sta pianificando una maternità artificiale senza considerare la vulnerabilità delle persone che la circondano. Come altri esempi affini di questa stagione pervasa dalle conseguenze dell’infinita crisi, Glory (che ha già raccolto moltissimi riconoscimenti internazionali, specialmente per la chirurgica sceneggiatura) contribuisce al ripensamento della dimensione umana del cinema europeo contemporaneo: slegandolo dall’impedenza del film-a-tema-sociale con vivace sensibilità e toccante tensione, proponendosi come racconto dai forti tratti locali ma di innegabile potenza universale.
Disperato, soprattutto, cioè privo di qualunque ipotesi di speranza, e il finale, pur aperto, non intende alleggerire, poiché, al momento pare impossibile pretendere un happy end. In Glory non c’è mai il bagliore della gloria, non c’è paradiso: solo tempo che si mangia quel che resta dell’umano.