L’influenza che ha esercitato Black Christmas (Un Natale rosso sangue) sul genere horror è ormai legittimata dall’eredità di ben due remake. Antecedente agli universi – poi estesi a dismisura – di Halloween e Venerdì 13, la pellicola di Bob Clark diventa uno dei primi oggetti di culto a istituzionalizzare il termine slasher con una dose sottesa di temi sociali e discorsi sul genere. Un confronto timido ma ancora significativo per il cinema degli anni ’70, coacervo di vittime e predatori moderni. E se molti critici, al tempo, liquidarono il film come una serie di violenze esibite per un piacere tensivo fine a se stesso, c’è chi ha visto in quella produzione canadese (relativamente) modesta un esperimento eccellente nel giocare con la suspense senza sciogliere i nodi del sospetto.

Tra i seguaci del culto troviamo Glen Morgan, che nel 2006 ha voluto indagare sulle sotto-trame dell’opera di Clark con una nuova versione, immersa nell’estetica del nuovo millennio. Non più personale del rifacimento di Sophia Takal, tuttavia, che ha fatto del suo film un’autentica missione: quella di ragionare sulle posizioni di potere estremizzando il conflitto di genere. Black Christmas (2019) - uscito in prima visione italiana direttamente in streaming - si misura fin da subito con gli spunti soltanto intuibili della pellicola originale, riaggiornandone ulteriormente lo scenario sociale. La sorority non ospita ragazze che meditano sull’aborto o sorveglianti che esibiscono poster inneggianti all’amore libero, ma studentesse all’epoca del #metoo in guerra contro il patriarcato e la mascolinità tossica. Tra le “sorelle” della MKE serpeggia il seme della fragilità a causa dalla confraternita DKO, un covo di ragazzi bianchi americani che usano il proprio potere – fisico, sociale, sovrannaturale – per far sentire le ragazze prede indifese, sotto la guida spirituale dell’antico fondatore dell’Hawthorne College. Misogino, come da copione.

La minaccia oscura del killer di Clark, che monitorava le vittime all’interno del dormitorio, viene identificata da Takal con le intimidazioni del branco. Al posto di vecchie telefonate ansimanti persistono inquietanti messaggi via social che potrebbero provenire da chiunque: da Brian, che ha violentato Riley uscendone indenne, dal Professor Gelson, che si rifiuta di insegnare ai propri studenti qualsiasi opera scritta da una donna. Persino Landon, un ragazzo fin troppo dolce e gentile per gli standard dell’ambiente universitario. E il sospetto si trasforma in paranoia, laddove la goliardia triviale delle confraternite degenera in un culto anti-femminile che spia, pedina, vìola.

Nella moltitudine di punti di vista sull’azione, Takal sembra a suo agio nel ri-manipolare a proprio piacimento la lezione di occultamento del Black Christmas originale. Non solo: nell’esasperare il conflitto tra generi, Takal sembra quasi voler contestare gran parte dell’immaginario di Clark, compreso l’universo Porky’s. Ci si può persino figurare che quei volgari ragazzotti delle superiori siano cresciuti sotto il segno dell’oggettivazione sessuale della donna, diventando i ben più pericolosi studenti dell’Hawthorne College.

Nonostante i nobili propositi, Black Christmas di Takal non combatte le discriminazioni di genere, ma si trasforma in un conflitto tra stereotipi volutamente tranchant. Problematiche sociali mai scomparse come lo stalking, la violenza, la prevaricazione del branco, si esauriscono in un parossismo grottesco che allenta la presa critica sulle battaglie delle protagoniste. Gli espedienti si fanno sempre più bizzarri e prevedibili, e un film che mirava a esulare dal classico slasher rischia di declinare nella parodia dello stesso: più Scream Queens che Scream, ma senza caustica ironia. Se l’atto di convertire la preda in predatore resta intrigante negli intenti, Sophia Takal decostruisce il film di Clark per confezionare un racconto contraddittorio sull’empowerment, vanificando ogni tentativo di sovvertire gli schemi e perfino di scandalizzare eventuali (misogini) detrattori.