Che cos'hanno in comune un fotografo di matrimoni e un cacciatore di Indiani? È destinato a scoprirlo Pedro (Alfredo Castro) in Blanco en Blanco di Théo Court, produzione spagnola ambientata in un Cile di inizio novecento in cui si consumano gli ultimi scampoli del genocidio avviato da Cortéz. A un passo dal western revisionista nella seconda parte, all'inizio è un film piuttosto diverso, col bravo fotografo inviato nella selvaggia Terra del Fuoco per documentare le nozze del padrone di un'immensa tenuta nel deserto innevato. La sposa (poco più che una bambina) è pronta, insieme provano le luci e scattano un ritratto singolo, ma passano le ore, passano i giorni, ed el señor Porter non si è ancora fatto vedere. L'attesa kafkiana del padrone invisibile è spezzata dallo stesso Pedro che, rimasto affascinato dalla piccola Sara, la convoca nella propria catapecchia adibita a camera oscura per continuare in privato il servizio fotografico. Malmenato dagli scagnozzi del padrone e impossibilitato a ripartire, dovrà "lavorare" per contribuire come tutti gli altri all'economia della tenuta.

"So fare solo fotografie" cerca di opporsi, ma non è detto che il suo talento non possa tornargli utile nel lavoro che è in serbo per lui. Alle orecchie di Porter, cognome anglofono per un padrone-conquistador che possiamo ipotizzare statunitense, non diverso dai coloni americani dell'Ovest attivi ancora in quegli anni qualche centinaio di miglia più a Nord, "to shoot" (filmare) suona proprio come "to shoot" (sparare), ed ecco il fotografo trascinato nelle scorrerie dei suoi cacciatori di scalpi, a sparare con loro per debellare i nativi Selknam e a documentare con il suo apparecchio omicidi, evirazioni, amputazioni di orecchie. "Non le donne e i bambini", però: loro è meglio risparmiarli, come hanno capito certi preti missionari nelle vicinanze; possono lavorare, servire nelle case, imparare a vestire all'europea..

Il nucleo centrale di Blanco en Blanco sono le sequenze dedicate all'allestimento della scena davanti all'obiettivo, che richiamano alla mente l'agghiacciante personaggio del fotografo forense interpretato da Jude Law in Era mio padre (2002), un quasi-entomologo pronto a manipolare i suoi soggetti inerti e se necessario a dar loro lui stesso il colpo di grazia. Lo stesso asfissiante senso di controllo, di spersonalizzazione del corpo impotente nelle mani del ritrattista (un Castro glacialmente perfetto) aleggia qui nei ritratti della bambina rigida, riluttante ai suoi comandi, corretta nella posa e nella mìse come una bambola di pezza, e nel finale in cui maniacalmente compone la foto-trofeo del massacro di tre nativi. La scomparsa di un popolo dalla faccia della Terra, la fondazione di un impero in cui "tutti sono proprietà", per Court non hanno l'aspetto aggressivo e militaresco del landlord, ma quello dimesso di chi in questo contesto cinematografico ne fa le veci, padrone non della tenuta ma della scena, amministratore del blanco che sotto metafora è ovviamente l'invasore europeo e che irrompe dalla landa innevata quando scosta le tende per illuminare la penombra degli interni.