Tra oltranze e oltraggi, abusi e abiure, il cinema di Lino Brocka urla ancora. Il rumore che si solleva dai suoi film – il vocio delle strade affollate, il chiasso dei bassifondi, le grida dei litigi – e che pure viene dagli anni in cui sono stati girati, non sembra arrivare davvero da allora. Quello che Brocka filma e registra è tutto al presente: non appena i suoi personaggi entrano nella prima inquadratura il loro passato e il loro futuro vengono sprangati. Così accadeva a Ligaya in Manila – Negli artigli della luce e alla protagonista di Insiang, riemersi qualche anno fa grazie al World Cinema Project della Film Foundation scorsesiana; così accade a Bona in questo film del 1980, indubbiamente selvaggio e aggressivo, dove però selvaggia è anzitutto la tenerezza e aggressivo lo stupore di fronte a ciò di cui si è capaci.

Perciò nulla, neanche i gesti di violenza più disturbanti, è estraneo alla regia di Brocka. Istintiva e ostinata, la sua macchina da presa è un elemento endogeno del mondo che rappresenta, quanto i feticci di devozione cristiana e le cinture degli uomini. È incessantemente (al) presente.

Nelle prime immagini, anticipate da un brusio crescente, c’è già il caos della società filippina, la sua oppressività e il suo fanatismo. Una serie di soffocanti totali su una processione religiosa assalita dalla folla nelle strade di Manila, in cui tantissime teste, tutte apparentemente di uomini, saturano ogni ripresa fino a debordare in quella successiva. Le inquadrature man mano si stringono fino a un affannato piano americano che permette però di distinguere il volto di Bona, gli occhi spalancati sul disordine e la sopraffazione della sua realtà.

Figlia della piccola borghesia perbenista, è devotamente innamorata di una comparsa di B-movies, Gardo, narcisista e donnaiolo. Lascia la casa paterna per andare a vivere con lui, che la tratta come una serva e, durante i suoi deliri alcolici, è convinto sia sua madre. La convivenza si trascina in un seguito di umiliazioni e brevi, ingannevoli intervalli di passione fino all’epilogo ustionante e catartico. Ma il carattere brusco del finale, dove ritorna in primo piano, stavolta fervido di rivalsa, lo sguardo di Bona, non è un aspetto isolato. L’intero montaggio del film procede ex abrupto, per tagli e sbarramenti e interruzioni precipitose che restituiscono il vigore disperato della vita nelle baraccopoli filippine.

La grandezza del cinema di Brocka sta nell’aver compreso la vitalità senza via d’uscita di un intero paese (prima, durante e dopo le leggi marziali di Marcos), e nell’averla trasmessa ai suoi personaggi, compresi quelli di contorno, come Nilo, l’unico amico di Bona, e gli altri abitanti del quartiere. Nei colori aspri e nei richiami notturni di Bona gli slum di Manila diventano le quinte perfette per mettere in scena un melodramma originalissimo, in cui l’immediatezza anche cruda del cinema di massa, parodiato dalle scene sui set di Gardo, viene rattorta dallo stile viscerale di Brocka.

Come Fassbinder o Papatakis, Brocka fa stridere magnificamente registri e temperature agli antipodi. L’amore di Bona si manifesta tanto nella sua sottomissione quanto nella sua acquisita ferinità, mentre Gardo si vanta e si autocommisera. Bona viene cacciata di casa due volte, con la medesima rabbia schiumante, dal padre e dal fratello, che in entrambi i casi la prendono a cinghiate mentre alle loro spalle, in secondo piano, si stagliano ritratti del Cristo o statue della Madonna (prodigi della profondità di campo!). Persino la lingua più diffusa nella Filippine e spesso urlata nel film, il tagalog, è 'sporcata' da termini ed espressioni dello spagnolo, eredità della plurisecolare occupazione coloniale assorbita nel parlato.

È come se Brocka spingesse la tradizione del melodramma a infrangersi contro questi conflitti dei corpi individuali e della coscienza collettiva, condensati nella scena in cui nello stesso spiazzo della baraccopoli si celebra una messa mentre un gruppo di uomini ubriachi storpia i successi dei Beatles alla chitarra. Così il film finisce per risultare ancora più feroce nei momenti di calma apparente, cioè durante i notturni in cui Bona si illude che Gardo la desideri a sua volta: la prima, vera (?), notte d’amore e il ballo accerchiato da luci rosse e blu. Ancora una volta le emozioni di passaggio sul volto di Nora Aunor – il turbamento dell’attrazione che lascia il posto al vuoto – si riverberano sui vestiti, sulle povere cose d’intorno e su tutto il resto.

Quindi non solo e non tanto scabrose scene da antologia, piuttosto promesse irrealizzabili di felicità per Bona, per tutte le donne filippine. Forse è ora di aggiungere un nome all’elenco degli autori del ‘cinema della crudeltà’ teorizzato da Bazin: Von Stroheim, Dreyer, Sturges, Buñuel, Hitchcock, Kurosawa, Brocka…