Del divo russo Ivan Mosjoukine, che consolidò la grande fama di cui godeva in patria al suo arrivo in Francia da esule dopo la rivoluzione del 1917, destano molto interesse alcune produzioni della Films Albatros tra cui il serial La Maison du mystère (1921-23) genere molto in voga all'epoca e soprattutto Braciere ardente (1923), film nel quale riveste sia il ruolo di regista che di attore dai magnetici occhi di ghiaccio.
In Braciere ardente la magia del cinema muto seduce il pubblico con i colori della pellicola virata, nella versione restaurata dal laboratorio della Cinémathèque Belge a partire dal negativo originale conservato presso La Cinémathèque française e da una copia d'epoca, riportante le colorazioni originali.
Il film costituisce un piacevole unicum per l’originalità della trama e per l’impossibilità di incasellarlo in un genere ben definito poiché coesistono al suo interno contemporaneamente gli stilemi del melodramma e le atmosfere noir dei serial francesi, le visioni oniriche mutuate dall’espressionismo tedesco e persino le gag delle comiche, ma soprattutto in esso Ivan Mosjoukine dimostra di aver imparato, durante il suo esilio a Montreuil, la lezione dalla prima avanguardia francese e cioè le ricerche sull’espressione cinematografica teorizzate da Dulac, Epstein, Delluc e sodali.
La didascalia dell’incipit ci introduce nei toni inizialmente cupi della storia anticipando che “la donna lottava invano per sfuggire alle grinfie di un terribile incubo…”. L’opera narra la vicenda di una donna (Natasha Lissenko) che è preda di un incubo premonitore in cui incontra un uomo sotto varie identità. Al risveglio realizza che ognuno di loro aveva le fattezze di Z (Ivan Mosjoukine), un celebre detective e maestro del travestimento di cui ha letto le memorie, che ricorda l’iconografia in cilindro di Fantomas.
Il facoltoso (ma noiosissimo) marito ingaggia un detective per recuperare l’affetto della moglie ormai turbata dalle visioni notturne, ricorrendo ad una improbabile Circolo degli studiosi al cui interno c’è un consesso di personaggi bizzarri e parecchio comici che promettono varie prodezze, tra cui anche quella di recuperare nel corpo e nell’anima i coniugi smarriti. Per sua sfortuna il detective assegnato al suo caso è proprio Z in carne ed ossa: l’incubo premonitore della donna si trasformerà in una romantica passione con buona pace del marito non ostacolerà il lieto fine.
Mosjoukine crea una serie incredibile di personaggi, che prendono vita sullo schermo grazie ad un talento istrionico e al suo poliedrico talento nel travestimento. Nella scena iniziale dell'incubo, maggiormente ispirata all’estetica chiaroscurale e alle grevi ambientazioni dell’espressionismo tedesco, l’attore interpreta contemporaneamente l’eretico bruciato sul rogo, un dandy, un sacerdote, un barbone, per poi proseguire la sua eccellente prova attoriale.
Al virare del film verso i registri più leggeri della commedia americana, diventa il brillante detective Z, personaggio a sua volta dotato di una personalità sfaccettata (è al contempo geniale investigatore, romantico innamorato, amorevole nipote ecc). Da artista carismatico quale era egli riesce a scavare nella psicologia dei personaggi interpretati scegliendo in alcuni casi le vie della sperimentazione, con l'introduzione anche di elementi comici come nella esilarante sequenza del Circolo segreto.
Nell'inconsueta veste di regista, alla sua seconda prova, Mosjoukine predispose accurate note preparatorie per la produzione, dichiarando, come riportano le fonti dell’epoca, che il suo soggetto era l'amore tra un uomo e una donna, e che non rivendicava alcun significato morale o filosofico. "Sono Lei e Lui, colti di sorpresa dall'obiettivo della macchina fotografica nel momento del loro inaspettato incontro. Un presentimento li separa loro malgrado, per cedere alla fine a un'attrazione reciproca (…)".
Tutta l’opera è inoltre un esplicito tributo alla modernità incarnata dalla Ville Lumière, di cui Mosjoukine tesse continuamente le lodi tramite i dialoghi dei personaggi, esaltandone la sinfonia delle luci, la vivacità sociale ed intellettuale, le novità della tecnica rappresentata in particolare dalle automobili, in netta contrapposizione alla monotonia e arretratezza della vita di provincia.
Proiettato per la prima volta il 1 giugno 1923 alla Salle Marivaux di Parigi, l’opera fu acclamata dalla critica dell’epoca che ne riconobbe l’originalità e per alcuni versi la modernità del linguaggio cinematografico, in grado di accogliere in alcune sequenze come quella dell’incubo, le soluzioni formali (dissolvenze, montaggio veloce, indagine psicologica dei personaggi) del coevo impressionismo francese.
Ricciotto Canudo, uno dei teorici della corrente, ne esaltò la visionarietà affermando che il film era "sorprendente come i primi balletti di Diaghilev”, accogliendo di fatto il divo russo nella schiera degli autori moderni.