Una tendenza presente nella filmografia di M. Night Shyamalan è quella che ha a che fare con la decostruzione della mitologia. Shyamalan prende simboli dell’immaginario universale e li scompone trasferendoli nella nostra contemporaneità, in universi narrativi in cui l’ordinario arriva a contaminarsi con uno straordinario che spesso diventa minaccia e, più raramente, salvezza.

Applicando questo paradigma, Shyamalan ha decostruito la figura del supereroe, nella sua affascinante trilogia iniziata con Unbreakable (2000) e proseguita con Split (2016) e Glass (2019). Allo stesso modo ha decontestualizzato le caratteristiche narrative della fiaba in film come The Village (2004) e Lady in the Water (2006), subordinando sempre le derivazioni popolari a una grandissima cura registica, ad una precisione maniacale nel racconto per immagini e nell’utilizzo del linguaggio cinematografico, al fine di evocare sensazioni ed emozioni nello spettatore.

Con Bussano alla porta (2023), adattando un romanzo di Paul G. Tremblay, Shyamalan opera sull’immaginario biblico. È quindi un film che per tutta la sua durata lavora tanto con il simbolismo e l’allegoria, con diversi gradi di intensità: talvolta la derivazione biblica è appena suggerita, altre volte sono le immagini e le parole dei personaggi ad esplicitare che ciò che stiamo vedendo è una lettura in chiave moderna di narrazioni più antiche e radicate.

Da questo punto di vista Bussano alla porta è molto vicino al lavoro compiuto da Shyamalan con la trilogia Eastrail 177 (questo è il nome dato al trittico Unbreakable, Split, Glass), in cui si dichiarava, in un constante dialogo postmoderno con gli spettatori e con la loro conoscenza condivisa, come tutto si giocasse in una dimensione autoriflessiva, dove non solo il film era consapevole di ciò che andava decostruendo, ma anche i personaggi stessi.

Quando i protagonisti di Bussano alla porta iniziano a parlare di “Cavalieri dell’Apocalisse” è evidente che il modus operandi di Shyamalan sia lo stesso, rendere i personaggi consci di essere parte della rilettura di una grande narrazione universale. Ogni elemento messo in scena può così essere letto in due chiavi diverse, quella più ovvia e immediata, per cui un murales che ritrae Gesù non è niente di più di quello che sembra, e quella che si dà retroattivamente, quando diventa ovvio che ogni cosa converge nella direzione di un significato simbolico.

Ma come al solito tutto passa attraverso una scrupolosa frammentazione registica: qualunque concetto è innanzitutto veicolato tramite le immagini, puramente tramite la composizione dell’inquadratura, che definisce i rapporti tra i personaggi e gli equilibri tra i soggetti coinvolti. Il linguaggio utilizzato è frutto di un attento ragionamento, ogni inquadratura è pensata nel dettaglio, ragione per cui, come negli altri film di Shyamalan, la regia è sempre protagonista senza essere invadente. Questa precisione però mostra i suoi limiti nelle scene più elaborate, complesse narrativamente e coreograficamente, che perdono la loro fluidità e spezzano quindi un ritmo e una tensione che invece Shyamalan riesce a creare bene nella maggior parte del film.

Al centro di Bussano alla porta c’è l’incertezza, il dubbio tra cosa è vero e cosa è falso, un dualismo che contamina la pellicola fino al terzo atto, dona caratura ai personaggi e stimola anche gli spettatori ad interrogarsi moralmente sul dilemma al centro del racconto. Quest’ambiguità scompare ad un certo punto, la narrazione prende una strada definita e il film finisce per diventare qualcosa di più convenzionale, in un finale preparato già dai primi minuti e caricato emotivamente tramite incursioni sottoforma di flashback nel passato dei personaggi, ma che proprio in virtù della sua convenzionalità non riesce a mantenere le aspettative.