Quanto manca oggi un cinema come quello di Sam Peckinpah? Diretto e spietato, apparentemente semplice ma al contempo greve e stratificato. Una complessità di contenuti sostenuta da una schiettezza formale ormai rara nelle opere contemporanee. Smaccatamente ancorato ai generi – non solo western – ma in costante conflitto con i loro canoni, Peckinpah viene ricordato come uno dei principali innovatori del cinema americano; naturale conseguenza di una poetica indomabile e votata alla libertà espressiva. E se uno stile di vita sregolato quanto il suo approccio alla creazione filmica ha circoscritto la filmografia di questo autore a soli quattordici titoli, questi bastano a restituire il livore che ha mosso l’attività del loro artefice.

Una produzione segnata da omaggi al classicismo cinematografico, ma pervasa da un’inconfondibile graffio revisionista che viene splendidamente sintetizzato dal film del 1971 Cane di Paglia (Straw Dogs) di cui quest’anno ricorre il cinquantennale dall’uscita nei mercati anglofoni. Un capolavoro che dopo mezzo secolo non solo mantiene intatte le peculiarità estetiche e tematiche che lo distinsero dalle opere coeve, ma che rivisto a diversi decenni di distanza, in un contesto cinematografico profondamente mutato, riesce ancora a custodire uno sfrontato fascino modernista. Opera controversa, in grado di suscitare clamore in quanto soggetta a diverse letture individuanti un’apologia della virilità e del predominio della figura maschile all’interno di un rapporto di coppia. Interpretazione certamente lecita ma oltremodo limitata, perché se da un lato Cane di paglia racconta sì la storia di un giovane uomo (Dustin Hoffman) che, al fine di imporre il suo ruolo di figura dominante nel nucleo famigliare, abbandona la mitezza del suo carattere per abbandonarsi alla furia omicida, è altrettanto vero che il punto di vista nel quale si pone l’autore non è mai glorificante nei confronti del personaggio.

Le azioni del protagonista David, il quale oggi ci appare come un Walter White ante litteram, acquistano più il sentore di una tragica e irreversibile corruzione, una deleteria vocazione ad una violenza da cui egli stesso viene travolto e divorato. Ad emergere non è tanto il ricorso ad una brutalità tutta maschile come strumento di supremazia, quanto l’effetto esacerbante di una comunità profondamente ottusa e reazionaria su una personalità malleabile. L’ambiente viene accuratamente delineato sin dalle prime inquadrature, dalle quali emerge la ruvidezza della campagna britannica parallelamente alla difficoltà di David, appena trasferitosi dagli Stati Uniti, a trovare un punto di contatto con quel mondo. Il principale catalizzatore dell’attenzione di questo microcosmo diegetico è però sua moglie, Amy Sumner (Susan George), originaria del luogo e centro degli sguardi bramosi di tutti gli uomini del paese.  Come testimonia il primo dettaglio riservato alla ragazza, un maglione bianco candido attraverso il quali si scorgono le forme dei suoi seni, Amy per gli abitanti non è altro che un corpo attrattivo, quasi ipnotico, un oggetto del desiderio da possedere.

Un oggetto che però, secondo le logiche della conquista, ha già un padrone, il quale tuttavia non palesa dei tratti fisici in grado di incutere timore alla concorrenza. David è un matematico dedito al suo lavoro, molto più devoto ai numeri che non alle persone, comportamento che costituisce un ostacolo anche all’interno della relazione con la moglie.  Questa sua tendenza lo pone in una condizione di passività che gli individui locali (inclusa Amy) concepiscono come un atteggiamento di sottomissione. Di fronte a tale mansuetudine il branco di predatori non si fa scrupoli ad aggirare l’ostacolo e impossessarsi dell’ambita preda con la forza. La violenza su Amy è uno dei passaggi più delicati e controversi dell’opera e non potrebbe essere altrimenti di fronte alla rappresentazione di una vittima di stupro che, subendo un tale atto di costrizione, riesce a trovare un malsano piacere.

Ma è proprio l’ambiguità che scaturisce da questa stridente contrapposizione di valori a costituire l’elemento più originale e accattivante del film. Peckinpah, affiancato in questo lavoro dallo sceneggiatore David Zaleg Goldman, non ritrae didascalicamente la vittima di una violenza come un essere immacolato e privo di volontà o pulsioni. Quanto subito da Amy è certamente terribile, ma questo non le ha impedito di provare un fisiologico piacere nell’avere un rapporto sessuale con uomo da cui in passato era attratta e soprattutto non la esime dal manifestare un atteggiamento abbietto nei confronti del marito come spontanea reazione al suo trauma. Tutto questo genera un conflitto irrisolto (e forse irrisolvibile) che degenera in una situazione di violenza. Le dinamiche che conducono alla carneficina finale (un sanguinoso climax dal gusto tarantiniano in anticipo di oltre vent’anni su Le iene), non sono altro che un escamotage narrativo che conduce alla naturale deflagrazione innescata dal continuo attrito tra forze e resistenze portate in scena fino a quel momento.

La forza con cui David si oppone all’assalto dei paesani non nasce dalla volontà altruistica di sottrarre lo sciagurato Henry Niles alla furia dei suoi fustigatori, ma dalla necessità di dimostrarsi capace di resistere ai loro soprusi. A ciò va ad aggiungersi la pressione della moglie, che riversa su di lui il dolore per quanto subito e la rabbia per non essere stata difesa, rinfacciandogli per l’ennesima volta di non essere l’uomo che lei vorrebbe che sia. David si trova quindi a fronteggiare un mondo che gli rinfaccia le sue mancanze, che lo accusa di non essere adeguatamente virile e lo spinge a valicare il limite della sua moralità pur di sentirsi rispettato. Ciò che ne consegue è un iperbolico abbandono agli istinti bestiali, i quali sovrastano la ragione e la dilaniano in modo irreparabile. A conferma di ciò arriva, nel momento che segna il nuovo approdo alla tranquillità, la scena del ritorno al paese in cui Henry confida a David di non ricordare la strada. La risposta è tanto laconica quanto eloquente: “non ti preoccupare… neanch’io”. Una frase che, accompagnata al sorriso disegnato da Hoffman sul volto del suo personaggio, rende palese il prezzo che è stato pagato per poter assaporare quel momento di potere.

Cane di paglia è un ritratto umano aggressivo e spietato, che poteva essere realizzato solamente da un autore che utilizza l’ambiguità come materia prima. La stessa foga irrefrenabile che ha ridisegnato il western con tinte accese e quanto mai dissacranti; la mano che ha calcato le aspre pieghe del cinema bellico, insinuandosi tra le fila reiette dell’esercito tedesco rinvenendovi un’inedita umanità; o ancora la capacità di delineare degli eroi action fuorilegge (McQueen, Hauer o Kristofferson) tanto rudi quanto intimamente fedeli alla propria etica. Per Sam Peckinpah verità e giustizia non sono blocchi monolitici da inquadrare secondo un unico punto di vista, ma concetti di infinita astrusità e mutevolezza.  Principi delicati che questo immenso regista ha saputo scandagliare attraverso un cinema potente, cristallino nella sua giocosa patina e imperscrutabile nelle implicazioni tematiche. Un processo, come affermato in apertura, di apparente semplificazione della complessità, sinonimo di grande intelligenza ma anche di infinito rispetto nei confronti della realtà e della sua trasfigurazione in opera d’arte.