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Peckinpah e Dylan nel crepuscolo degli idoli

Il canto del cigno di un’epoca è affidato alla voce consumata dello storyteller di Duluth, Robert Allen Zimmerman, meglio noto come Bob Dylan. Tra evocazioni sonore tex-mex e minimali tocchi di chitarra che si intensificano, in un finale barocco, mischiandosi a tre vocalist, flauti, violoncelli e contrabbassi, il menestrello americano si fa voce e corpo di un Ovest al suo tramonto nello struggente Pat Garrett e Billy Kid di Sam Peckinpah.

“La croce di ferro” e la parte sbagliata della Storia

Il film uscì nel 1977, la guerra in Vietnam era finita con la sconfitta degli U.S.A. giusto due anni prima. Nonostante il grandioso successo in Germania e in Austria, la pellicola fu un sonoro flop di pubblico e critica, soprattutto oltreoceano. Certo, un tentativo di umanizzazione dell’esercito tedesco a soli trent’anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale poteva risultare disturbante (lo è tuttora), ma una riflessione generale sulla natura umana che accomunasse soldati nazisti e statunitensi era addirittura insostenibile.

“Cane di paglia” o dell’ambiguità nel cinema

Cane di paglia è un ritratto umano aggressivo e spietato, che poteva essere realizzato solamente da un autore che utilizza l’ambiguità come materia prima. La stessa foga irrefrenabile che ha ridisegnato il western con tinte accese e quanto mai dissacranti; la mano che ha calcato le aspre pieghe del cinema bellico, insinuandosi tra le fila reiette dell’esercito tedesco rinvenendovi un’inedita umanità; o ancora la capacità di delineare degli eroi action fuorilegge tanto rudi quanto intimamente fedeli alla propria etica. Per Sam Peckinpah verità e giustizia sono principi delicati che vanno scandagliati attraverso un cinema potente, tanto cristallino nella sua giocosa patina quanto imperscrutabile nelle implicazioni tematiche.

“Getaway!” e il lato selvaggio dell’America

Anche quest’anno abbiamo chiesto ad alcuni giovanissimi aspiranti critici di affrontare i classici e scrivere intorno a film del passato, ospitati dentro al Cinema Ritrovato 2018. Getaway! rappresenta ancora oggi un motivo di interesse per la sua rappresentazione di un lato selvaggio e violento degli Stati Uniti. Una sequenza come quella in cui il personaggio di Doc McCoy interpretato da Steve McQueen entra in un negozio di armi ed acquista senza nessuna difficoltà un fucile a pompa e dei proiettili per poi utilizzarli sia contro il l’uomo che glieli ha venduti che nei confronti dei poliziotti al suo inseguimento, rappresenta il piccolo ritratto di un’America terribilmente attuale.

“Getaway!” di Sam Peckinpah al Cinema Ritrovato 2018

Sam Peckinpah in Getaway! non perde tempo e sintetizza nella frenesia delle prime immagini – che stilisticamente enfatizza attraverso l’uso del freeze-frame – la vita che Doc, negatagli la buona condotta, è costretto a condurre all’interno del carcere. Fatta di giorni sempre uguali, che fra loro si confondono, di lavori sfinenti e di ricordi e fantasie che riaffiorano ossessivamente. Peckinpah, quando Doc è finalmente fuori dal carcere, mostra come il suo protagonista sia frantumato: da un lato i ricordi della sua vita, precedente all’arresto, lo perseguitano e lui dà le spalle all’occhio che lo osserva, ma dall’altro lato è possibile vedere nel suo volto, riflesso nello specchio, la sua voglia di ricominciare e voltare pagina. Quando le schiene di Doc e Carol sono allineate ed i loro volti riflessi si guardano, il patto che essi stabiliscono, con la macchina da presa, è quello di non tornare più indietro.

“Getaway!”: un western metropolitano al ritmo di armonica

Getaway! conserva molti degli elementi formali che caratterizzano la precedente filmografia di Peckinpah. Nella sequenza iniziale i titoli di testa scanditi da ripetuti fermo-immagini, il montaggio del sonoro diegetico sincronizzato e l’alternanza frenetica di momenti di vita carceraria sono funzionali a restituire la claustrofobia e l’estenuante ripetitività delle giornate di Doc e della sua condizione di detenuto. Condizione che non durerà ancora per molto, dato che la moglie Carol intercederà con un potente uomo d’affari corrotto, che lo farà uscire di prigione chiedendogli però in cambio di organizzare una grossa rapina in banca. Un montaggio serrato, quasi rabbioso, tipico del cinema di Peckinpah, è qui sostenuto da un impianto sonoro potente e insolito.

 

“Il mucchio selvaggio” per Cinema e Sessantotto

Il discorso sull’uomo di Peckinpah non prescinde dalle situazioni e dal momento storico. Il mucchio selvaggio è in realtà anche un film sulla guerra, in cui si avvertono gli echi del Vietnam: nella rappresentazione di un potere che non ha pietà, che delega il lavoro sporco di uccidere ad altri, ma lo fa con assoluta discrezionalità e tiepidi rimorsi per i malcapitati sulla sua strada; nello sbeffeggio della stupidità e insensatezza umana di fronte alla volontà di potenza e all’ebbrezza di dominare sugli altri, come illustra la scena della mitragliatrice, da antologia; nella riflessione sull’inevitabilità della catena della violenza, dove un solo atto di aggressione conduce al conflitto senza possibilità di scelta, che le parti in gioco lo vogliano oppure no, come mostra la resa dei conti conclusiva.

Cinema Ritrovato 2017: “Voglio la testa di Garcia”

“Why? Because it makes me feel good, goddamnit!”. La crudeltà disillusa del cinema di Sam Peckinpah, regista osteggiato all’epoca per la sua atipicità e rivalutato postumo per il contributo fondamentale nel rinnovamento del western, raggiunge il suo punto terminale con Voglio la testa di Garcia, ultimo atto di un racconto sul genere che da Il mucchio selvaggio a Cane di paglia è riuscito a cristallizzare sullo schermo come pochi altri la radicalità della violenza umana.