Come fai a dimenticarla, una faccia come quella di Carlo Delle Piane. E la gobba del naso, gli occhi stralunati, la statura minuta. Un’immagine cubista, quasi una caricatura che ha preso vita. Il caratterista per eccellenza. Allora ribaltiamo il discorso: ce l’abbiamo noi, quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così, quando vediamo sullo schermo Carlo Delle Piane. Perché di fronte a una faccia tanto unica, un’espressione al contempo sperduta, maliziosa e malinconica, possiamo saltare da una reazione all’altra: ridere d’istinto, squadrare dall’alto della nostra opinabile convinzione d’esser più benfatti oppure provare quel moto d’affetto che reclamano i diversi o, all’opposto, un senso di repulsione.
Chi ha colto tutte queste sensazioni, nel corpo sgraziato dunque splendido di Delle Piane, è Pupi Avati, che l’ha preso nella fase meno felice della sua carriera. Da reduce di un cinema ormai impossibile, quella popolare degli anni Cinquanta e Sessanta, Avati lo trasforma in presenza imprevedibile, intercettando le gamme più nascoste di un talento naturale e stratificato: buffo e compassato (Tutti defunti… tranne i morti), candido e bambinesco (Le strelle nel fosso), aristocratico e stravagante (Noi tre), tormentato e consumato (Sposi), ectoplasmatico e incontrollabile (Dichiarazioni d’amore), ambiguo e misterioso (La via degli angeli), onnisciente e suggestivo (I cavalieri che fecero l’impresa). E soprattutto nella memorabile terna degli anni Ottanta che lo consacra protagonista: il timido professorino di Una gita scolastica, l’illuso innamorato di Festa di laurea e l’untuoso avvocato Santelia di Regalo di Natale, ruolo che gli valse una Coppa Volpi a Venezia e poi ripreso nello spietato sequel La rivincita di Natale.
Della folta schiera di antieroi avatiani, Delle Piane è stato il più esemplare. Nessuno come lui ha saputo interpretare uomini di seconda schiera destinati inesorabilmente al fallimento sentimentale, eterni emarginati beffati dall’idea di poter vivere un’inattesa avventura e invece costretti a restare sempre non-protagonisti, comprimari rassicuranti che non mettono in crisi il dominio dei belli, dei vincenti, dei perfetti. Pochi sono riusciti con tale potenza a passare dal coro al numero da solista: ed è proprio quella gavetta che ha permesso al Delle Piane reinventato protagonista da Avati di restituire l’inquietudine del riscatto, il desiderio di rivalsa, la consapevolezza della grande occasione.
Ha fatto di tutto, Delle Piane, dall’esordio in Cuore in virtù del suo status di “bambino più brutto di Roma” (fonte: Avati) passando per una marea di commedie di consumo (Da qui all’eredità, I pappagalli, Quanto sei bella Roma), drammoni strappalacrime (Domani è troppo tardi, Ho ritrovato mio figlio, La ladra), parodie goliardiche (Walter e i suoi cugini, Totò e Cleopatra, Le magnifiche 7), musicarelli (Perdono, Zum Zum zum n° 2, Lady Barbara), effimere esperienze d’autore (Fortunella, Che?, Teresa la ladra) fino alle commediacce dalle quali lo riscatta Avati (La signora gioca bene a scopa?, L’insegnante, La dottoressa del distretto militare). Spalla d’oro: affianca Alberto Sordi come compagnuccio in Mamma mia, che impressione!, Cicalone in Un americano a Roma, Gnaccheretta in Ladro lui, ladra lei; Aldo Fabrizi, che gli voleva bene, intuisce nel suo fisico disarmonico il figlio ideale nella serie della Famiglia Passaguai e nel Rugantino teatrale; e con Totò dà vita a siparietti gustosissimi a partire da Guardie e ladri.
Ma, a parte Avati (si sente la disturbante assenza dell’attore romano in quella seduta spiritica che è Il signor Diavolo), pochissimi negli ultimi decenni gli hanno concesso altre possibilità di emergere: il paziente amministratore di Condominio, Vittorio Emanuele III in fuga di Io e il re, il timido passeggero di Tickets, il pensionato di Nessun messaggio in segreteria, il partigiano dell’inedito Linea gotica e l’anziano Santelia (ebbene sì) del testamentario e sfortunato Chi salverà le rose? sono lampi fugaci, parentesi di un amaro finale di partita segnato dalla malattia e dall’isolamento. Ed è un peccato che pochi autori abbiano saputo costruire mondi adatti ad accogliere quella faccia un po’ così, a quell’espressione un po’ così.