Girato dopo il thriller hitchockiano Obsession, è il primo horror di De Palma, adattamento di un libro del giovane Stephen King. Punta di diamante dell’horror settantiano, Carrie costituisce una delle rare pellicole in cui tutti gli elementi della messa in scena agiscono in un accordo quasi perfetto, producendo una vera gemma all’interno di un genere oberato da B-Movie a tratti amatoriali. Il cardine della pellicola è il viso della Spacek, capace di passare dalle espressioni scioccate della weirdo ad un’amabile sorriso da prom queen, per poi trasformarsi in maschera demoniaca.
Il corpo fragile della ragazzina costituisce il territorio su cui si scontrano tutte le tensioni della piccola provincia americana: il conflitto tra giovani e adulti, tra religione e laicità, tra winners e losers. Emarginata dai coetanei, maltrattata dalla madre e dileggiata dagli insegnanti, alla ragazza non resta che aggrapparsi al suo unico dono, la telecinesi che le permetterà di ottenere un cruento riscatto altrimenti impossibile. Interessante è osservare come, all’interno dell’economia emozionale del racconto, lo spettatore sia portato ad empatizzare fortemente con la protagonista, bilanciando l’orrore della strage finale con la soddisfazione di assistere alla vendetta di una povera emarginata. La parabola di Carrie White non differisce da quelle degli altri outsiders che popolano il cinema americano della New Hollywood, e propone un interessante modello di narrazione orrorifica lontana dallo stereotipo in cui il mostro incarna un’alterità minacciosa e terrificante.
La pellicola contiene inoltre molti elementi divenuti poi ricorrenti all’interno dell’opera del regista, a partire da Nancy Allen, successivamente protagonista di Vestito per uccidere e presente in Home Movies e Blow Out. La colonna sonora segna l’inizio dell’importantissima collaborazione con il compositore Pino Donaggio, destinata a durare sino alle ultime opere del regista. Anche stilisticamente troviamo molti degli espedienti che De Palma riproporrà come suoi marchi di fabbrica: lo split screen, i montaggi incrociati carichi di suspance, e una predilezione per le sequenze oniriche, che confondono lo spettatore con una commistione di sogno e realtà.
Vera perla nascosta del film è la scena conclusiva del ballo: per una decina di minuti, la tensione si dissolve in un’emotivissima sequenza da teen movie, capace di catturare per la tenerezza dell’acting e lo splendido gioco di luci curato da Mario Tosi.