Il debutto alla regia di Paola Cortellesi racconta una storia di violenza, resistenza e libertà nell’Italia del Dopoguerra. Dal mattino le botte del marito Ivano (Valerio Mastandrea) e gli insulti del suocero (Giorgio Colangeli) scandiscono le giornate che Delia (Paola Cortellesi) trascorre correndo freneticamente fra un lavoro e l’altro per racimolare qualcosa e sistemare la casa, col pensiero costantemente rivolto ai due figli maschi e alla figlia maggiore Marcella (Romana Maggiora Vergano). Proprio il possibile matrimonio di Marcella con Giulio, figlio del ricco del quartiere, è fonte di aspettative per Ivano, che spera di uscire dalla difficile condizione economica della famiglia, e di preoccupazioni per Delia, che già vede ripetersi i semi della violenza. 

C’è ancora domani interroga chi guarda, facendo comunicare mondi – apparentemente – lontani. Così i primi minuti in 4:3 presentano come uno schiaffo la vita di Delia e dialogano con i titoli di testa al rallentatore per le strade in fermento pre-repubblicano. Anche la colonna sonora contemporanea duetta con la ricostruzione precisa di un quartiere romano del Dopoguerra e con i molti riferimenti cinefili. Non solo Campo de’ fiori e Abbasso la miseria! (si veda l’intervista a Paola Cortellesi in FilmTv 43/2023), ma anche il Neorealismo e gli omaggi a Una giornata particolare nel risveglio domestico e negli sguardi Delia fra i panni bianchi stesi al sole di Roma: anni diversi, ma oppressori tremendamente simili.

Accanto a questo dialogo che mostra le analogie fra passato e presente, assottigliando purtroppo le barriere fra i due, c’è anche lo scontro continuo fra la tensione del dramma e gli sprazzi di una commedia, che raggiunge i suoi momenti più alti nei duetti di Delia con l’amica Marisa (Emanuela Fanelli). Merita forse una considerazione a parte il contrasto più straziante della violenza, non nascosta, ma trasformata in danza sulle note di “Nessuno” (nella versione del duo Musica Nuda). Una scelta coraggiosa per chi quella violenza l’ha vissuta o vista, ma straziante ed efficace, cinematograficamente, nel non dare allo sguardo quello che avrebbe atteso: i movimenti, goffi, della danza spiazzano e costringono così a vedere meglio e davvero, oltre la rappresentazione.

Nel complesso quindi il gioco ben calibrato di contrasti, netti come il bianco e nero della fotografia, procura uno studiato ed efficace effetto straniante, spingendo a riflettere su ciò che stiamo vedendo. La sceneggiatura, firmata dalla regista con Furio Andreotti e Giulia Calenda, scorre rapida senza retorica nemmeno nel personaggio di Ivano, di cui Mastandrea mostra le debolezze in una rappresentazione mai indulgente. La storia prosegue e il campo si allarga ad ogni corsa di Delia fino a mostrare per intero il grido repubblicano dei muri di Roma sulle note di una partecipazione che è libertà “ma pure resistenza”.

Resta nel cuore l’inno al coraggio di Delia sostenuta da una collettività femminile e da un lungo campo-controcampo con la figlia (unico, intenso e silenzioso momento di pace fra le due), che sigillano – senza rossetto – la violenza maschilista. Resta, però, anche la consapevolezza, amara, che il domani del ’46, divenuto oggi, richiede ancora molto lavoro da fare (insieme).