Giunta al quarto lungometraggio dopo la trilogia “adolescenziale”, di Naissance des pieuvres (2007), Tomboy (2011) e Diamante nero (2014), concentrata su tematiche di genere in un mondo contemporaneo e romanzi di formazione, Céline Sciamma (classe 1978) sceglie di restare fedele al tema omosessuale, ma di fare un salto nel tempo girando un film in costume ed esplorando per la prima volta l’età adulta.

Siamo in Francia, nel 1770: Marianne (Noémie Merlant), pittrice di talento, riceve l'incarico di realizzare il ritratto di nozze di Héloise (Adèle Haenel), una giovane donna appena uscita dal convento per sposare l'uomo a lei destinato, un milanese. Héloise, che ha ereditato questo destino dalla sorella maggiore morta suicida, tenta di opporsi allo stesso, rifiutandosi di posare. Ingaggiata dalla madre, una contessa (Valeria Golino) di origini italiane, Marianne dovrà allora ritrarla di nascosto, fingendo di essere una semplice dama di compagnia. La frequentazione tra le due giovani rivelerà tra le due una passione inaspettata e travolgente.

Céline Sciamma sceglie il millesettecento e per protagonista una pittrice per affrontare un tema rilevante e trascurato come quello delle artiste donne in generale e dell’amore tra due donne in particolare. “All’epoca erano assai più numerose di quanto non si sappia le donne pittrici e avevano un certo successo, soprattutto grazie alla moda dei ritratti. Esistevano già fermenti di rivendicazioni per una maggior uguaglianza e visibilità e molte di queste opere appaiono nelle collezioni dei più importanti musei, ma sono rimaste escluse dalle cronache e dai resoconti storici ufficiali, tanto che le uniche due donne pittrici di cui sentiamo spesso parlare sono Artemisia Gentileschi o Angelica Kauffman”.

La regista sceglie quindi di mettere il fuoco su un personaggio sociologicamente emblematico, ma senza fare un biopic, sceglie una storia di fantasia per uscire da una dinamica del racconto impostato sul “nonostante tutto (l’oppressione maschile, le barriere dei costumi), lei era eccezionale e ce l’ha fatta” e così la visione sulle “personagge” finisce per essere orizzontalmente positiva. Infatti il progetto narrativo e politico del film è che tutte le protagoniste siano soggetti, nessuna sia reificata, oggettificata dagli occhi dell’altra. E questo è reso possibile dal tipo di sguardo che attraversa il film. Uno sguardo femminile (quello della regista, delle protagoniste e perfino del pubblico a cui il film è rivolto) che si dichiara palesemente epigono di quel female gaze di mulveyana memoria.

“L’uguaglianza è un sentimento dolce da provare” dice Héloise riferendosi al suo nascente rapporto di intimità con Marianne, “L’idea è quella di cambiare il piano del racconto, siamo troppo abituati a vedere mettere in scena un conflitto, e pensiamo che se non c’è un conflitto il film non scorra, invece io ho voluto mettere in scena un altro tipo di suspense, perché anche una situazione egualitaria può creare una tensione narrativa, una sorpresa, un piacere”. Proprio questo piacere visivo, il voyeurismo, la scopofilia sembrano essere i veri protagonisti del film di Sciamma, che è tutto costruito sulla sottolineatura del potere degli sguardi. Grazie al potere dei loro occhi che scelgono cosa guardare e come guardarlo le donne si sottraggono all’imperante dispositivo del potere maschile, adoperato come strategia di soggiogamento sociale. Questa sottrazione si esprime liberamente nel contesto di uno spazio avulso dal resto del mondo (il castello in mezzo al mare), dove per un breve periodo di tempo (solo 5 giorni) le due protagoniste possono dare sfogo alla loro passione esprimendo la propria sessualità ed assecondando i loro desideri (leggono, fumano, posano nude), trasgredendo tutte le consuete dinamiche che poco hanno a che fare con l’amore, ma piuttosto sono legate a questioni di ordine morale, sociale, politico ed economico.

Anche la grammatica del film è costruita sapientemente per evitare una rigida separazione tra chi guarda e chi è guardato (come succedeva per esempio in La finestra sul cortile, film aspramente criticato da Laura Mulvey per la sua prospettiva mascolinamente voyeuristica), e favorendo una fluida intercambiabilità tra soggetto e oggetto dello sguardo stesso. Sarà la stessa Héloise in una scena del film, mentre posa per Marianne, a spiegare alla pittrice “noi siamo nello stesso posto, quando guardi me, io chi guardo?”. Gli occhi come specchio dell’altro, oltre che dell’anima. E proprio nel gioco di rispecchiamenti è nascosto il capolavoro della regista che riesce a portare in scena contemporaneamente, e senza prevaricazione alcuna, più sguardi creando una intersezione efficace ed attiva, tra quelli di spettatore, regista, operatori, attrici, in un gioco di continuo ribaltamento riflettente la natura puramente prospettica della visione. Durante la visione di Ritratto di una giovane in fiamme siamo tutti oggetto e soggetto di uno sguardo nuovo. Lo sguardo femminile che Céline Sciamma restituisce al cinema epurato da ogni sovrastruttura.

Per compiere questa operazione a tratti miracolosa, oltre a sollecitare vorticosamente la vista con l’uso di una fotografia prorompente e coloristica, la regista ricorre alla rianimazione di un altro dei cinque sensi spesso abusato dal cinema e perciò spesso dato per scontato: l’udito. E lo fa immergendo la visione in un accorato silenzio. “C’è pochissima musica nel film e si tratta di una scelta fatta in fase di scrittura. Di solito la musica è usata per dare ritmo alle scene. Ma questo è un film d’epoca e nel 1770 non era facile reperire musica. I personaggi sono frustrati per la non disponibilità della musica, per una ricostruzione d’epoca era importante fare questa scelta. Le protagoniste hanno un grande desiderio di musica che non possono soddisfare, mi interessava mettermi nella stessa situazione delle personagge e dare la possibilità di fare questa esperienza. Nel momento in cui la musica c’è esplode con grande forza. Inoltre il silenzio che domina nel film crea un altro tipo di ascolto, la colonna sonora del film sono i passi delle protagoniste, il respiro, il rumore del mare che si frange sulla scogliera”. Il silenzio dominante, oltre a obbligare la regia a lavorare sapientemente sul ritmo delle scene, crea uno stato di ascolto nuovo, che concentra l’attenzione dello spettatore polarizzandola potentemente su ciò che vede accadere, e, per la maggior parte del tempo, ciò che avviene è il posarsi di uno sguardo furtivo, complice, desiderante.

Quasi completamente assenti dal film sono le figure maschili, forse perché la narrazione poggia su un immaginario lesbico o probabilmente perché “ciò che resta fuori dall’obiettivo è ciò che lo predetermina”. La contessa (Valeria Golino) sembra ricoprire il ruolo di emissaria della cultura patriarcale, ma non è ritratta secondo il topos della madre autoritaria vecchia e arcigna, anzi, anche lei pare animata da una vitalità in fondo gioiosa, che cerca un suo spazio di espressione aldilà dei vincoli imposti dalla società. “Volevo raccontare un amore non impossibile, ma vissuto e possibile. Se ci fosse stato un uomo ad entrare nel quadro questo avrebbe oggettificato l’amore omosessuale e non volevo che accadesse”.

Infine la storia d’amore di Marianne ed Héloise non finisce male. Finisce. E ancora spiega la regista: “come diceva  una frase della poetessa Mary Oliver 'A broken heart is an open heart' volevo uscire dall’idea che una storia d’amore a lieto fine sia quella di un mutuo possesso in eterno. Volevo invece proporre l’idea di un amore come qualcosa che ci cambia e ci apre all’arte, uscire da una narrazione tossica dell’amore come possesso. Una storia d’amore ben riuscita è una storia d’amore che ci emancipa”. E così a chiudere il cerchio di tale necessaria emancipazione, a suggellare la potenza anche simbolica di Ritratto di una giovane in fiamme ecco il riferimento e la rilettura offerta del mito di Orfeo ed Euridice: il mito per antonomasia più indagato dalle femministe, poiché riassume in sé tutta la disparità del rapporto tra lo sguardo (potente) dell’uomo e il destino (amaro) della donna che viene guardata. Héloise ci offre la possibilità di insinuare un nuovo dubbio, una nuova interpretazione del mito, ipotizzando che sia stata Euridice stessa a sussurrare al suo amato “girati!”. Così come noi spettatori insieme a Marianne nel vibrante piano sequenza finale vorremmo sussurrare alla sua amata di voltarsi, per un’ultima volta ancora a guardare il suo amore, che presto svanirà.