La proiezione di Antonio Gramsci – I giorni del carcere di Lino Del Fra (1977), ideato con Cecilia Mangini, ci offre la possibilità di un ragionamento critico sul rapporto tra l’uomo politico e il piccolo/grande schermo. Senza dimenticare gli attori che gli hanno prestato il volto.

Siccome siamo un Paese in grado di sontuose celebrazioni o inesorabili rimozioni, l’ottantesimo anniversario dalla morte di Antonio Gramsci rappresenta il più recente test per la nostra disposizione all’esercizio della memoria. Certo, chiunque abbia visitato la sua tomba presso il cimitero acattolico di Roma, eternata dai versi del poeta (“Non è di maggio questa impura aria…”), può testimoniare la costanza con cui viene ornata di fiori e salutata da irriducibili compagni. Ma limitiamoci al cinema e al suo potere di (ri)pensare la storia: ultimamente Gramsci 44 di Emiliano Barbucci e Nel mondo grande e terribile di Daniele Maggioni, Laura Perini e Maria Grazia Perria hanno affrontato la questione, però sono lavori purtroppo relegati alla periferia della distribuzione, proiettati specialmente in meritori eventi creati ad hoc e che, al di là del merito artistico, cercano soprattutto di mantenere viva la memoria.

La cosa curiosa è che, in questi ottant’anni, il cinema “ufficiale” non si è molto dedicato alla figura di Gramsci. Tanto determinante per la formazione di qualche generazione di cineasti e studiosi, Gramsci – non il suo pensiero ma proprio il suo corpo – non sembra essere stato incisivo nel racconto cinematografico degli stessi. Diamo atto alla tv di aver coperto il vuoto didattico grazie allo sceneggiato Vita di Antonio Gramsci (1982), scritto, tra gli altri, da Suso Cecchi D’Amico, con Mattia Sbragia nel ruolo titolare.

Comunque, a ben vedere, sono pochi i biopic sui politici italiani, peraltro spesso colti in fondamentali tranche de vie: De Gasperi nell’immediato dopoguerra (Anno uno, ’74, la fiction di Liliana Cavani, 2005), il sequestro Moro (almeno Buongiorno, notte, 2003; ma è anche alluso in Todo modo, ’76, e reso comprimario assieme a Saragat in Romanzo di una strage, 2012), le giovinezze di Amendola (Un’isola, ’86) e Pertini (Ci sarà un giorno, ’93), fino a Andreotti star de Il divo (2008) e il Berlusconi de Il caimano (2006). Mussolini può vantare perfino una miniserie americana (The Untold Story, ’85) ma da noi è stato ritratto unicamente in momenti ben precisi (da Mussolini ultimo atto, ’74, a Vincere, 2009, passando per le fiction sulla figlia Edda, ’85 e 2005). Che ci sia forse una difficoltà nel mettere in scena la politica? Probabile. Qualcosa che concerne il timore e la timidezza? Forse. Oppure il calcolo e l’opportunismo? Talvolta. L’oblio è una facoltà attiva? Certo. O più semplicemente i politici sono soggetti poco interessanti? No.

Nel gruppetto di sopra, solo Marco Bellocchio e Paolo Sorrentino (Nanni Moretti è un caso a parte) hanno saputo emanciparsi dal cronachismo, operando dentro il “genere” biografico con notevoli scelte stilistiche, spesso dirompenti. Prendiamo l’onesto, istruttivo Il delitto Matteotti di Florestano Vancini (’73). La sua riuscita risiede nelle ottime scelte di casting per l’affollato parterre politico, dominato dal Duce di Mario Adorf (doppiato da Ivo Garrani) e dal Gramsci di Riccardo Cucciolla. Vale la pena soffermarsi su quest’ultimo perché, quattro anni dopo il Matteotti, torna nei panni del pensatore sardo in Antonio Gramsci – I giorni del carcere di Lino Del Fra, Pardo d’Oro a Locarno nel ’77.

Il volto sofferto di Cucciolla, attore emblematico del decennio più engagé, porta sempre con sé i segni del ruolo che l’ha consacrato, dopo le prove già indicative in questo senso di Italiani brava gente di Giuseppe De Santis (’65) e I sette fratelli Cervi di Gianni Puccini (’68): l’anarchico Nicola Sacco di Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo (’71). La faccia scavata, gli occhi rassegnati, il fisico esile, i meccanismi avversi lo eleggono a vittima designata del periodo, come intuiscono registi a loro modo sensibili al popolare come Damiano Damiani (il testimone Pesenti ne L’istruttoria è chiusa: dimentichi, ’71), Vancini stesso (il professor Salemi de La violenza: quinto potere, ’72), Marco Vicario (il padre sterile di Paolo il caldo, ’73), Giuseppe Ferrara (Pino Pinelli in Faccia di spia, ’75). Perfino la sua voce comunica la coscienza di una fine angosciante (doppia John Cazale nei primi due Padrino, ’72 e ’74). Interessante, invece, come in Italia forse solo Mario Bava in Cani arrabbiati (’74) abbia voluto lavorare nell’ambiguità della sua sofferenza, sulla scia dell’impiego quasi antifrastico da parte dei francesi Jean-Pierre Melville (Notte sulla città, ’72) e Jacques Deray (Borsalino and co., ’74)

Proprio per le caratteristiche della sua maschera, Cucciolla suggerisce la problematicità nel mettere in scena Gramsci: la sua immagine, così somigliante all’iconografia originale, con la postura ricurva e l’espressione afflitta, allude visibilmente ad una sconfitta umana e storica.  Tuttavia, l’operazione di Del Fra, in un b/n desaturato ed antiretorico, trasfigura l’attore-vittima nel personaggio-martire. Al di là dell’impressione di continuità da Vancini a Del Fra, se col primo Cucciolla propone un Gramsci icastico, che è soprattutto la voce autorevole contro quella autoritaria di Mussolini-Garrani, per il secondo l’attore lavora sul corpo fragile, vessato dalla detenzione, in opposizione a quello robusto del prefetto Bocchini (un perfido Paolo Bonacelli).

Ma ne mette anche in evidenza la “mens sana” nel “corpore insano”: in un’intervista data al Manifesto, Cecilia Mangini, moglie e collaboratrice del regista, spiega come il film voglia essere sì il racconto di uno sconfitto, ma “che costruisce il suo riscatto” e, infatti, “le sue conversazioni coi prigionieri del carcere di Turi dimostrano il suo talento pedagogico che si scontrava col credo stalinista dei compagni”. Apertamente gramsciano, il film, anche attraverso la restituzione di pezzi di vita che ricostruiscono “il mondo affettivo di Gramsci e le sue inquietudini, i sentimenti incrociati, la sensazione di sfaldamento dei rapporti”, finisce per essere soprattutto l’intenso saggio recitativo di un attore, sostiene Anton Giulio Mancino, predisposto “a presentarsi sullo schermo come un personaggio estremamente vulnerabile, gracile e ostinato”.