Cent’anni e un attimo sono concetti che nel cinema di Federico Fellini si mischiano fino a fondersi in una dimensione unica e inafferrabile. Del visionario capace di reinventare mondi con la stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, i mitografi – perché Fellini è mito, anzitutto mito – decantano più d’ogni altra cosa la forza di un immaginario in cui l’onirico confina con il reale e la fantasia (o la menzogna, se si preferisce) è al servizio di una personale interpretazione della verità. Pochi artisti hanno determinato il proprio secolo in modo così dirompente e ancor di meno possono vantare la riduzione in aggettivo. Il fellinesco, il felliniano, il fellinismo. L’uomo che divenne un aggettivo, ma anche l’uomo che divenne una certa idea di fare, vivere, pensare cinema.

Cent’anni e un attimo: Fellini ieri come oggi e così anche domani sarà faro, guida, maestro di generazioni infinite; e, di riflesso, monumento da picconare. Uno che ha dato il nome a cose che prima cercavano solo una definizione. È l’8 ½ di un autore, è l’Amarcord della nostra vita, è la Dolce vita del nostro tempo. Più si scandaglia l’opera dell’uomo che ha dato un nome alle cose, più ci si convince di quanto sia irrinunciabile. Per celebrarlo nell’appuntamento del centenario (ma qualcuno ha mai dimenticato o rimosso l’illustre riminese?), proviamo a risondare le cose meno esposte di una carriera illuminata di grazia. E quindi, al di là delle pietre miliari, riprendiamo Roma, rapporto confidenziale e capolavoro nero, riprendiamo lo sbalestrato e inafferrabile Toby Dammit, riprendiamo Prova d’orchestra per filtrare nella parentesi allegorica il decennio più cupo…

E riprendiamo l’incipit della carriera, perché le cose da qualche parte cominciano, specie per uno che la gavetta l’ha fatta, eccome. Non dimentichiamo che Ettore Scola, amico devoto, ebbe l’intuizione di spiegare Fellini attraverso l’apprendistato in Che strano chiamarsi Federico!. Teniamo da parte Luci del varietà e i dissidi col co-regista Alberto Lattuada: su chi abbia fatto cosa si discute da anni e gli stessi autori ne hanno discusso per tutta la vita. Prendiamo Lo sceicco bianco, allora: fresco, acido, imperfetto, il battesimo della commedia interiore di Fellini, alieno per un cinema sospeso tra comicità di consumo e gabbia neorealista, da mettere accanto a certe fughe di Totò per la ragionata follia e a qualche puntata zavattiniana, diciamo l’episodio di Miracolo a Milano.

Siamo in una faglia tra ripensamento realistico e prospettiva onirica di un dopoguerra filtrato attraverso la distorsione fumettistica e della satira di costume. Più che alla miseria raccontate da registi coevi, Fellini è interessato ai segni della ripartenza: un simbolico viaggio di nozze a Roma è l’occasione colta dallo sposo per far colpo sullo zio, sperando che una serie di “attenzioni” possa permettergli di fare carriera da paesano meridionale a bravo piccolo borghese metropolitano. Ma, alle udienze papali, la sposina preferisce la possibilità di conoscere il divo dei fotoromanzi noto col personaggio dello Sceicco Bianco. L’ingresso in scena è mitologico: Alberto Sordi sull’altalena è un mascherone, già platealmente un buffone, fin troppo ridicolo per essere affascinante eppure surrogato grottesco di Rodolfo Valentino fedele all’idea di cosa potesse ammaliare le ingenue e romantiche provinciali avide lettrici (e sognatrici desiderose di evasioni). “La vera vita è quella del sogno, ma a volte il sogno è un baratro fatale” è una battuta che vale tutto Fellini.

La vita vera è un baratro fatale, come sanno bene I vitelloni, per chi scrive film fondamentale (ma questo non conta). Vitelloni, peraltro, termine che spiega e immortala un mondo. Controcanto adriatico del futuro seminario della gioventù: “Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, neppure una reminiscenza”. Un film di reminiscenze, appunto, che alla fine della giornata si affollano nella solitudine notturna. Non si muovono, non si spingono al di là di ciò che conoscono o credono di conoscere, i vitelloni, più per abitudine che altro, vivendo nell’attesa che qualcosa prima o poi accadrà. “L’inverno è terribile, non passa mai. E una mattina ti svegli. Eri un ragazzo fino a ieri. E non lo sei più”. I vitelloni è la quintessenza della provincia. È sconcertante come nel dittico Sceicco-Vitelloni abbia saputo raccontare i provinciali trascendendo e prescindendo la contingenza del contemporaneo. “Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”: perché l’italianità di Fellini ha radici profonde. C’è Sordi a dare il senso di ogni cosa, con quel faccione guarda caso messo accanto a un pupazzo di cartapesta: infantile, mammone, invidioso, codardo, la nascita di un attore nel cui corpo si concentra un’intera nazione. “Non sei nessuno, tu. Non siete nessuno tutti, tutti quanti. Tutti...”. Fatti i festeggiamenti per il centenario di Fellini, toccherà pensare alla festa per il secolo di Sordi.