Nell’affollato immaginario criminale italiano contemporaneo, Ciao bambino di Edoardo Pistone si distingue per la sua forza emotiva che agisce per sottrazione, capace di coinvolgere senza ricorrere alla retorica pietistica o alla spettacolarizzazione del disagio. Non ci sono inseguimenti nei vicoli di Napoli, sparatorie o spargimenti di sangue, almeno non in campo, né uomini muscolosi e tatuati o donne avvenenti che vivono negli improbabili interni con mobili barocchi e ori a cui ci ha abituato l’estetica camorrista televisiva.

Premiato alla Festa del Cinema di Roma e al Black Night Film Festival di Tallinn come migliore opera prima, il film di Pistone sviluppa efficacemente la sua narrazione criminale quasi senza ricorso a colpi di scena, fotografando in un pulito bianco e nero il disvelarsi di un destino già scritto attraverso una ricerca formale, evidente ma mai fredda, dell’architettura delle inquadrature e dei movimenti di macchina.

Nemmeno maggiorenne, Attilio, che vive in un quartiere periferico di Napoli insieme alla madre e al padre, appena uscito di prigione, si ritrova già schiacciato dai debiti che il padre ha contratto con Luciano, il boss locale, che gli spiega chiaramente che il denaro dovuto dal genitore ricade sul figlio. Per guadagnare qualche soldo, il ragazzo inizia a lavorare con un altro criminale del quartiere, Martinelli, un ricettatore senza troppa importanza, una mezza tacca ma pronto a tutto per denaro.

Anche a far prostituire Anastasia, una giovane ragazza dell’est, forse minorenne, sotto la protezione di Attilio, che presto, però, se ne innamora. Oltre al padre, Attilio deve pensare anche alla libertà della ragazza per costruire un possibile futuro insieme lontano dal quartiere dove ha sempre vissuto. Due preoccupazioni che non possono non entrare drammaticamente in conflitto.

Se Napoli è spesso rappresentata cinematograficamente come uno spazio urbano rumoroso, affollato e ininterrotto, casermone dopo casermone, su cui mettere le mani, Ciao bambino, coerentemente con il suo progetto di decostruire il folklore della malavita, ci mostra invece sorprendentemente i silenzi e gli spazi vuoti, come l’enorme piazzale dove Anastasia viene fatta prostituire. Anche gli stessi luoghi di aggregazione sono caratterizzati dal vuoto e dai silenzi, come la sala dove il padre gioca alle slot machine o le immagini dei fuochi d’artificio sui titoli di testa che trasfigurano la geografia urbana in un paesaggio quasi fantasy sotto gli sguardi muti degli abitanti del quartiere che riaccolgono il padre di Attilio.

Solo in un’inquadratura verso la fine del film, Napoli ci appare, vista dal mare, come un susseguirsi di palazzi che respingono, facendo una barriera che, più che proteggere chi arriva o ritorna, nasconde realtà e minacce non visibili. Quasi non ci spieghiamo lo stacco successivo, in cui Attilio sta tornando nella sua periferia di Traiano, che, con quella lunga strada vuota e un unico spazzino un po’ incongruo, non sembra un luogo della città.

Ciao bambino ha una struttura circolare: inizia con il furto di una macchina fotografica da parte di Attilio e dei suoi amici e si conclude con le foto del rullino all’interno dell’apparecchio, alcune turistiche che ritraggono la coppia a cui è stata rubata, altre con Attilio e il suo gruppo di amici proprio mentre pensano al furto, altre ancora con Attilio e Anastasia in momenti, a loro volta, rubati allo sfruttamento.

L’oggetto è significativo e polisemico: metafora di un destino già impresso, ma anche di un’eternizzazione di persone e momenti, da cui un semplice ciao e il passare del tempo anagrafico, o filmico per noi spettatori, non ci può distaccare. Perfetto tutto il cast, ad iniziare dai due interpreti principali, Marco Adamo e Anastasia Kaletchuck.