Nel 1949, quando Henry King dirige Cielo di fuoco, la guerra è vinta, ma la memoria di una tragedia collettiva di proporzioni devastanti è ancora recente nella coscienza americana. Non è più tempo di propagande patriottiche e incitamenti spassionati allo dello sforzo bellico, ma la nazione, con gli occhi ancora pieni degli orrori del conflitto, ha bisogno di metabolizzare un trauma doloroso.

Di questo slittamento di toni e atmosfere, la filmografia di Henry King – cineasta sensibile agli umori delle platee e alle direttive della Fox – è esemplare cartina al tornasole: nel 1941, in anticipo sui tempi, King dirige un film bellico gonfio di ideali, A Yank in the R.A.F., in cui Tyron Power è un pilota americano che sceglie di combattere da volontario tra i ranghi dell’aviazione di sua maestà. Seguiranno, nello stesso solco, Eagle Squadron (Arthur Lubin, 1942) e Captains of the Clouds (Michael Curtiz, 1942), omaggi altrettanto lusinghieri che Hollywood dedica all’aeronautica statunitense (e sarà proprio Curtiz a firmare il gioiello assoluto della propaganda alleata, in un’assolata Casablanca). Ma quando con Cielo di fuoco, solo sette anni più tardi, King torna a raccontare di piloti impavidi e contraeree nemiche, tutto è cambiato: lo slancio patriottico ha ceduto il passo alla riflessione amara sul costo umano della guerra, e campioni senza macchia hanno lasciato il posto ad eroi ben più tormentati.

Gregory Peck, rilucente del suo stardom allo stato apicale, presta così il volto all’ennesima figura nervosa e ricurva, scissa nel profondo tra coriaceo spirito di sacrificio e consapevolezza ultima del peso della responsabilità. È proprio l’esercizio del potere, e la ferita profonda che scava in chi è costretto a sopportarne il fardello, che fa da perno alla riflessione di King, più interessato alle dinamiche psicologiche che ad enfatici spargimenti di sangue. Il risultato è un film di guerra straordinariamente parsimonioso, nelle esigenze produttive così come nell’impianto spettacolare: le poche riprese aeree – prese direttamente a prestito da autentico materiale d’archivio, come annunciano i titoli di testa – sono sfruttate solo per il climax finale, mentre per il resto la vicenda è racchiusa tra le mura di una base militare interamente ricostruita in studio. Cielo di fuoco, a dispetto del titolo altisonante, è allora un’opera verbosa e permeata di umanesimo, in cui non si pronunciano mai le parole “patria” e “sacrificio”, ma si intessono ritratti commoventi di cameratismo, amicizia e solidarietà.