“Why? Because it makes me feel good, goddamnit!”. La crudeltà disillusa del cinema di Sam Peckinpah, regista osteggiato all'epoca per la sua atipicità e rivalutato postumo per il contributo fondamentale nel rinnovamento del western, raggiunge il suo punto terminale con Voglio la testa di Garcia, ultimo atto di un racconto sul genere che da Il mucchio selvaggio a Cane di paglia è riuscito a cristallizzare sullo schermo come pochi altri la radicalità della violenza umana.
Basterebbe analizzare l'inganno temporale su cui viene costruito il prologo per comprendere la potenza anticipatrice del film, stroncato inguistamente all'uscita con l'accusa di sciatteria e sadismo. In una cupa hacienda messicana, un proprietario terriero mette una taglia sulla testa di Alfredo Garcia, campesino donnaiolo colpevole di aver violentato e ingravidato la sua giovane figlia. Le premesse di un'archetipica storia di vendetta ci sono tutte, ma il regista compie un brusco scarto temporale che sposta la vicenda negli anni Settanta ed esplicita la natura ideologica del film: Voglio la testa di Garcia è un western contemporaneo dove le macchine decappottabili hanno sostituito i cavalli ma il metro morale dei protagonisti continua ad essere assoggettato alle saguinose logiche della Frontiera.
In questo universo amorale privo di qualunque forma di sacralità si muove lo squattrinato Bennie di Warren Oates, attore feticcio di Peckinpah, irriducibile perdente attratto da sogni di gloria e ricchezza che si tramuteranno lentamente in un'ossessione autodistruttiva. In linea con l'intera filmografia del regista, la ricerca della testa di Garcia è motivata, ancor più che dal premio in denaro, dal desiderio amoroso e sessuale per una donna, oggetto ambiguo e indecifrabile ma unico soggetto consapevole del destino di morte che lo aspetta. La tragica relazione tra Bennie ed Elita comporta anche uno scarto di genere all'interno del film, che diventa nella seconda parte un aspro melodramma pessimista sulla fine di un amore incapace di sbocciare in un mondo fatto di cuori neri che palpitano solo per la morte e l'avidità.
La discesa agli inferi di Bennie è fatta di sangue, sudore e sporcizia, che si incrostano sui nobili valori degli eroi classici e li conducono a una deriva folle e nevrotica. È nei dialoghi deliranti con la testa putrefatta di Garcia, ripresi nella loro accezione più ironica ed estetizzante in Sin City di Robert Rodriguez, che Peckinpah esplicita con divertita sgradevolezza la decadenza morale del protagonista e il suo insanabile desiderio di morte. L'unica soluzione possibile è andarsene in grande stile, portandosi dietro quante più anime possibile, ed è per questo che il film si chiude con una variazione individualista dello showdown de Il mucchio selvaggio, lasciando nuovamente la parte della vittima sacrificale alla colonna del cinema messicano Emilio Fernández.
Voglio la testa di Garcia colpisce lo spettatore con la brutalità di un colpo di pistola in pieno volto e nella filmografia di Peckinpah spicca come la sua ultima grande opera divisiva, un rabbioso miscuglio di generi che rifiuta qualunque tipo di consolazione e decreta la morte della speranza nel cinema di genere americano.