Negli scorsi giorni, durante il Festival Visioni Italiane, si è tenuta una tavola rotonda dal titolo apparentemente angosciante, “Serie Tv: futuro o morte del cinema?” : un dialogo tra autori, produttori e registi per capire quali siano i rapporti tra le due grandi forme di intrattenimento. L'incontro è stato coordinato dal direttore di questa testata, Roy Menarini, insieme a Emiliano Morreale: “Letto così, può risultare estremamente preoccupante, ma in realtà siamo molto ottimisti a riguardo. In Italia sembra che per la prima volta sia ‘innovazione’ la parola chiave e quest’onda di cambiamento ha investito anche la Rai. Occorre ricordare a tal proposito progetti come Il principe libero, che prima di andare in onda in tv è stato un film evento registrando incassi incredibili”. Partecipano alla tavola rotonda molti dei protagonisti di questa ondata di freschezza che sta investendo la serialità italiana: Angelo Barbagallo (produttore de La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana e de Il principe libero), Mattia Torre (la geniale mente dietro serie come Boris e La Linea Verticale), Edoardo Gabbriellini (regista per Dov’è Mario? e In Treatment), Mario Gianani (produttore di 1992), Stefano Sardo (sceneggiatore, tra i suoi principali lavori troviamo 1992 e In Treatment) e Claudio Cupellini (regista di Gomorra).
Secondo Angelo Barbagallo, ci troviamo in un momento di forte euforia e anche di maggiore richiesta di contenuti: “Questo entusiasmo deve essere gestito per non correre il rischio della globalizzazione, ovvero che la lingua inglese diventi dominante. Per fortuna c’è ancora una forte richiesta di prodotti nazionali”. Da un punto di vista produttivo, ritiene basilare sapere su quale rete andrà in onda un programma per poter effettuare una riflessione sul potenziale target. “La fiction va in onda quasi esclusivamente su Rai 1, che ha un pubblico estremamente strutturato. Soprattutto è la rete che non può permettersi di perdere ascolti. La Linea Verticale, un progetto molto più innovativo, è stato una pura scommessa”, spiega Barbagallo, “Molti prodotti italiani, come Don Matteo o Il commissario Montalbano, vengono venduti all’estero, ma non riescono a fare sistema. Abbiamo bisogno di più case di produzione capaci di confrontarsi con il mercato globale, ma anche una maggiore interazione tra le diverse realtà per evitare situazioni di arroccamento. Quello che sfugge al settore dell’entertainment in Italia è che i prodotti più innovativi degli ultimi anni vengono proprio dalla televisione”. Ci tiene a soffermarsi anche su un progetto da lui prodotto, La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana (che ricorda anche essere la serie tv preferita dei creatori di Netflix): “All’inizio doveva andare in onda in quattro puntate, ma Rai decise di posticiparla. Lo mandammo a Cannes, dove vinse nella sezione “Un certain Regard”. Ci chiedevamo perché la gente fosse impazzita per quel prodotto e lo capimmo presto: era perché cambiava totalmente il tempo del racconto, aveva il tempo della vita. Le mie serie tv preferite sono quelle come Downtown Abbey dove hai tempo di appassionarti al racconto”. Per quanto riguarda il successo de Il Principe Libero, riconosce che il merito è sia della natura del prodotto - legato a una figura così conosciuta come quella di De André – che della modalità distributiva: “In questi casi bisogna inventare vie diverse anche per adattarsi ai nuovi metodi di fruizione. Avere questi film evento in sala è come avere un appuntamento al quale non si può assolutamente mancare”.
Mattia Torre, autore di Boris, che a detta di Roy Menarini “ha messo alla berlina i limiti iconografici e narrativi della fiction in Italia”, spiega di avere paura del concetto di target: “Per me la scrittura non si deve limitare all’idea aleatoria del target di un canale. La postura iniziale deve essere fondamentalmente larga e il più universale possibile”. Non sempre però la serie che racconta le bislacche avventure realizzative di René Ferretti è stato l’oggetto di culto che è oggi: “Sulla Fox faceva mediamente 40.000 spettatori a puntata contro gli undici milioni di Un medico in famiglia. La cosa che mi rende più felice è l’interessantissima conformazione del pubblico che va dal prof di fisica al ragazzino di Ostia. Poi Rai Cinema ci ha proposto di farci un film. Il trailer è stato un successo strepitoso, oltre 120.000 visualizzazioni nelle prime dodici ore su YouTube, ma purtroppo non siamo riusciti ad allargare il pubblico della serie come avremmo voluto”. Secondo lui in Italia ci sono molti film che per scarsità di fondi non riescono a comunicare quello che vorrebbero e altri invece molto pop senza alcun contenuto: “Vorrei cercare una terza via e per questo la televisione è un’occasione perfetta. Io cerco di scrivere le storie nel modo più autentivo possibile come è successo anche nel caso de La linea verticale. Per me se qualcuno ha qualcosa da dire e lo fa con chiarezza, non avrà problemi a trovare il pubblico, nonostante i palinsesti finiscano per essere una giungla pericolosissima”.
Edoardo Gabbriellini ricorda nel suo intervento la sfida presentata dall’adattamento italiano di In Treatment: “Si tratta di un format fortissimo con dei ganci di fruizione molto diversi da quelli a cui siamo abituati oggi e sicuramente inadatta a uno spettatore distratto. Tuttavia, avendo una struttura di riferimento molto precisa che abbiamo rispettato molto precisamente, in un certo senso è stato facile da un punto di vista tecnico. E’ anche una sfida per lo spettatore: due persone sedute che raccontano sulla carta sono un concetto anti-cinematografico, ma per lo spirito voyeuristico dello spettatore che vorrebbe entrare come una mosca nello studio di un’analista è a dir poco perfetto”. Il regista vuole sottolineare una grande contraddizione del pubblico di oggi, che “non riesce a trovare la concentrazione per vedere un film in sala, ma riesce a vedere una serie in binge watching [usufruire della visione di più episodi consecutivamente, spesso per molteplici ore e senza pause]”.
Proprio a quest’ultima riflessione si riallaccia Angelo Barbagallo, spiegando che la rivoluzione epocale delle piattaforme digitali è che i contenuti sono fruibili quando, come e dove vuoi tu, mentre il cinema logicamente non ha questa possibilità: “Proprio per questo servono iniziative come i film evento, che grazie a una precisa campagna pubblicitaria riescono a trovare il loro pubblico. Altrimenti bisogna cercare di dare più tempo in sala ai film, affinché il pubblico se ne possa interessante. Spero che i cinema italiani un giorno possano aprirsi alla multiprogrammazione, che permetterebbe un’offerta molto più ampia e interessante, ma la distribuzione non lo permetterebbe mai”
Per Roy Menarini, l’evoluzione dei prodotti in Rai – tra i più interessanti anche L’ispettore Coliandro – è una risposta alla competizione dei prodotti premium: “In questo scenario di estrema competizione, si ha un evidente saturazione del mercato ed è difficile che un prodotto possa fare il suo percorso. Una realtà come Netflix funziona perché con il suo algoritmo suggerisce allo spettatore cosa guardare”
“Anche nelle forme di narrazione più anarchiche e prestigiose, stanno iniziando a comparire dei caratteri sempre più conservatori”, spiega Mario Gianani, che loda i numerosi tentativi della tv di stato: “La Rai non è solo Don Matteo: il pubblico fruendo pian piano di prodotti più innovativi sta sviluppando un gusto più raffinato”. Per lui è anche importante il ruolo che la quality television ha avuto soprattutto negli anni ottanta: “Vedendo gli sviluppi e i contenuti sempre più interessanti che la televisione stava proponendo, il cinema ha deciso di provare a riprendersi quel pubblico, sperimentando di più”.
Stefano Sardo, tra i creatori di 1992, spiega che lo spettatore di oggi con la sua rinnovata libertà di programmazione datagli da canali come Netflix pretende di avere tutto e subito. “È con l’arrivo di realtà come queste che l’Italia ha finalmente scoperto la competizione, prima non si erano mai cercate soluzioni originali. Quando ho visto il pubblico avere una reazione così complessa e diversificata nei confronti di 1992, ho capito che era quella spontanea davanti a un prodotto originale”, spiega Stefano Sardo, “Il problema è che in Italia non sperimentiamo quasi mai e soprattutto non si è mai creata una serialità tanto definita da portare all’esistenza della figura dello showrunner [persona che rende possibile la realizzazione giorno per giorno di una serie televisiva]. Fare tv in questo paese è un gesto quasi masochista, è necessario permette al talento di veicolarsi e avere così dei progetti personali con un marchio di fabbrica riconoscibile.
Chiude l’incontro l’intervento di Claudio Cupellini, tra i registi di Gomorra, che comincia raccontando il processo creativo e tecnico dietro la serie: “Tra le mille vicissitudini tutti gli episodi della prima stagione finirono per essere girati con troupe diverse senza che ci fosse un ombrello produttivo a controllare i diversi registi. Tuttavia, siamo stati capaci di produrre qualcosa di sgangherato e anarchico e anche grazie a questa libertà è diventata un enorme successo. Dalla seconda stagione Gomorra è diventata un’industria produzione-centrica”. “In Italia stiamo facendo dei tentativi, ma purtroppo sono ancora molto timidi. Per esempio, non stiamo sperimentando nel campo delle serie autoconclusive, la realtà più simile al cinema che ci sia. Penso che quello italiano sia un sistema non lungimirante e poco attento ai cambiamenti”, aggiunge il regista.
Quello delle serie tv in Italia è un fenomeno solo agli inizi, ma che nonostante una produzione di stampo generalista sempre presente, sta riuscendo a farsi sentire anche a livello globale – basti pensare che Gomorra è considerata uno dei migliori esempi di serialità televisiva al mondo da una rivista autorevole come il New York. Sono progetti che necessitano di una forte libertà autoriale e soprattutto di una grande sincerità: solo così saranno capaci di fare breccia nei cuori del pubblico.