Il nuovo Cinema Taiwanese, germogliato durante gli anni ’80, oppone alle pellicole d’intrattenimento importate da Hong Kong uno sguardo rigoroso alla quotidianità e alla società contemporanea. Taipei Story di Edward Yang si pone in questa tradizione, fotografia di una città silenziosamente lacerata tra passato e presente.

Chin lavora per una ditta di computer, Lung per un’industria tessile. Il loro rapporto scivola nell’incertezza quando la donna perde il lavoro e guarda alla possibilità di trasferirsi in America. Lung non condivide i suoi progetti, e preferisce concentrarsi sul basetball e la sua attività commerciale. Lentamente, la frattura tra i due diverrà sempre più ampia.

Centro della pellicola è la metropoli, di cui i personaggi non sono altro che maschere. I protagonisti rappresentano il primo di una serie di raddoppiamenti volti a sottolineare la frattura tra tradizione e innovazione: due paesi stranieri simbolo di paure e sogni, due donne tra cui Lung è diviso e due uomini con cui Chin flirta. Yang, debitore ad Antonioni sia nella costruzione dei quadri che nella grammatica del racconto, si limita ad osservare, senza indicare vie d’uscita da quella che pare una vera e propria empasse generazionale: nè la morale confuciana di Lung, attento a chi è in difficoltà ma incapace di accettare i costumi degli stranieri, nè la calma nervosa di Chin, che guarda incessantemente alla fuga come soluzione del suo scacco esistenziale, sembrano l’atteggiamento corretto per condurre una vita a Taipei.

Come in gran parte del cinema asiatico postbellico, traspare chiara la paura di smarrire la propria identità nazionale, cancellata da paesi stranieri con maggior forza economica. Gli Stati Uniti hanno esportato il basetball, e i commercials colorati del Giappone fanno capolino dagli schermi televisivi; l’unico prodotto genuinamente autoctono che fa capolino in 119 minuti è il cibo, servito nelle tradizionali ciotole di ceramica. E’ forse proprio l’americanizzazione il pericolo più grande denunciato dalla pellicola, capace di scivolare sotto pelle e farsi accettare nel silenzio generale. Yang si rende conto di come pub e freccette non appartengano alla sua cultura, ma combatte una guerra persa in partenza. Opporsi con la violenza ad un mutamento dei costumi è fallimentare, e l’uomo sconta il suo tentativo con la morte, arrivata per mano di un teppista in giacca di pelle e motocicletta che strizza l’occhio ai ribelli di Dean e Brando.

Opera capace di cristallizzare la grande crisi identitaria attraversata da Taiwan, il secondo film di Yang incornicia un panorama orientale negli stilemi dello sguardo europeo, consegnandoci un’opera affascinante.