Gli occhi di Agnès Varda sono trasparenti e luminosi: è così che lei appare negli incontri con la stampa, sul palco per l’anteprima d’eccezione della sua ultima fatica elaborata e girata JR, nella gigantografia che lo street artist parigino ha incollato sui vagoni di un treno, nei selfie su Instagram e nei primi piani di Visages Villages. Ma se la miopia fisica è un motivo che ricorre lungo tutto il documentario fuori concorso a Cannes che ha riscaldato la serata in Piazza Maggiore, di certo non è tale la visione del mondo che la regista ottuagenaria ha trasmesso nei suoi ultimi lavori, a cavallo fra cinema e cultura visuale contemporanea (moda, street art, installazioni artistiche, social media).

La potenza immaginifica dello sguardo, d’altronde, è uno dei pilastri del fare cinema: l’occhio dell’artista non solo sa osservare con acutezza la realtà, ma è in grado, rappresentandola, di colorarla a suo modo, e di portare lo spettatore fuori dai confini e dentro a dimensioni che si fanno via via poesia in divenire, nella pratica dei gesti, nel ritrovarsi dei luoghi.

E se guardiamo, appunto, a Visages Villages (2017), ma anche al suo immediato antecedente, Les trois boutons (2015) – cortometraggio all’interno della serie Miu Miu Women’s Tale – è evidente che Agnès Varda è stata in grado di creare una vera e propria palette di colori attraverso i quali esprime un sistema del mondo che, lungi dall’essere programmatico, tende tuttavia a un fine: il recupero dell’umanità, del senso di appartenenza, del piacere dell’incontro, e la riconfigurazione della femminilità entro nuovi spazi, fisici e culturali.

I due film, se visti in sequenza ravvicinata, sembrano usciti dalla stessa tavolozza: ci sono personaggi comuni (il postino e il quadro di lui, nella cui piccola figura femminile possiamo rintracciare ora Jasmine, la giovane protagonista del corto che riceve pacchi e missive fiabeschi, ora la stessa Agnès, che lo trasforma in un poster a grandezza monumentale), paesaggi ricorrenti (una campagna dolce, quieta), medesime presenze (le immancabili capre bianche). Ma a ben vedere, il legame più stretto che li unisce è proprio quello instaurato dal colore, fortemente sfumato e opacizzato, reso tenue pur nella sua brillantezza.

C’è l’azzurro, declinato sia nel turchese sia nelle sue tinte più fredde e lievi. Il primo è il colore di un cielo sempre benevolo, sia che si tratti dei piccoli paesi del Nord della Francia, sia che illumini le strade del Sud verso il cimitero dov’è sepolto Henri Cartier-Bresson. Non si tratta di puro estetismo, ma della ricerca di un benessere interiore che favorisca l’incontro con il sé (nel caso di Jasmine) o degli altri (in Visages Villages). La seconda tendenza può essere dolce o malinconica: Jasmine è sempre vestita di un celeste chiaro, così come il postino indossa in entrambi i film la sua uniforme carta da zucchero. È un colore che ritorna anche nelle persiane delle case, ma che presto trasfonde nel grigio dei poster di JR. Sono le tinte della leggerezza, ma sono anche il colore dell’atmosfera, quell’impalpabilità che Leonardo da Vinci aveva concepito per dare l’impressione della distanza spaziale, e che ritroviamo nelle numerose inquadrature di Visages Villages in cui Varda e JR sono colti di spalle, a scrutare un orizzonte marittimo o lacustre. Insieme alla tenerezza con cui i due si avvicinano alle persone e al mondo, c’è sempre quell’ombra gelida che la fotografia porta con sé, foriera di un velo di perturbante, come percepito da una delle ragazze che si osserva stupita nel poster del suo paese.

I colori dell’indefinito sono le variazioni di ocra, ghiaccio, sabbia che fanno delle case, delle torri dell’acqua, della spiaggia della falesia, di una facciata ancora in costruzione i luoghi della memoria: Varda che ricorda Guy Bourdin, immagine effimera sul bunker crollato lavato via dalla marea, ma anche Varda e JR che ripropongono in un Louvre deserto e dorato la celebre scena della corsa in Bande à part di Godard. 

Però, infine, c’è spazio per qualche nota più cangiante, anche se rarefatta da un uso sempre opaco della luce: c’è il bianco puro delle capre con le corna (simbolo, forse, di una semplicità da rispettare, e magari da imitare), ci sono i fucsia e i bordeaux del vestito magico di Jasmine e degli stessi abiti di Agnès Varda, e ci sono i verdi e i rossi brillanti dei container al cui centro spuntano le mogli degli scaricatori del porto di Le Havre: perché la femminilità proposta da Varda è forte, libera, indipendente, e si pone accanto alle cose del mondo, mai dietro.