“Il nostro mondo più funesto apparirà, e sarà caro il disinganno quando tutto crollerà.” Riflettere su un classico del cinema contemporaneo come Blow-up partendo dal primo verso di una canzone dei Baustelle potrebbe apparire azzardato e indubbiamente anacronistico. Eppure Maya colpisce ancora, cattura alla perfezione quel senso ineluttabile per cui la percezione del reale è del tutto illusoria e la verità inafferrabile, che si coglie anche nel film di Antonioni. Un film in cui l’illusione, o la disillusione di realtà presente, è messa in atto attraverso richiami precisi tra cui la musica stessa.
Ambientato in una fumosa Londra anni ’60, Blow-up è una lenta immersione nei potenziali inganni della mente. Protagonista della vicenda è Thomas, un giovane fotografo talentuoso quanto arrogante, il quale si convince di aver assistito e involontariamente catturato su pellicola un tentativo di assassinio.
Attraverso le lenti della sua macchina da presa, Antonioni osserva, un po’ come il suo protagonista, la Swinging London da lontano e in modo quasi voyeuristico, mettendo in scena una città spersonalizzata e che tanto somiglia alla nebbiosa Ravenna di Deserto Rosso. L’intera vicenda si svolge infatti in un grigiore sempiterno, in cui la quasi totale assenza di colore e i mattoncini delle abitazioni working class, contribuiscono a plasmare quello che assume i contorni di un luogo lontano nel tempo e nello spazio, piuttosto che a uno reale.
Un trip allucinato in cui i dettagli caratteristici di quel tempo storico, la Londra degli anni ’60, si manifestano soltanto in ambienti chiusi e circoscritti implementando così un’atmosfera già di per sé irreale. Con il dispiegarsi di svolazzanti e coloratissimi abiti femminili, acconciature alla moda e un intreccio di composizioni musicali firmate Herbie Hancock, lo studio del fotografo diventa un santuario in cui l’arte pretende di piegare la realtà a sua immagine.
Una sorta di volontà di potenza che si esplica nella celebre sequenza dell’amplesso fotografico, con protagonisti Hemmings insieme alla modella Verushka, in cui tra i movimenti meccanici dell’obiettivo e il sinuoso ondeggiare della ragazza, si insinuano anche le note delle composizioni di Hancock (Verushka Part 1, Verushka Part 2). Un jazz spurio, in cui il suono della melodica fa già pensare a un tipo di musica ben più psichedelica di cui Antonioni ci fornisce un assaggio nella sequenza in cui i The Yardbirds suonano Stroll On. Esempio acerbo in cui il sound surf ricerca le prime forme di psichedelia, la canzone coincide anche un’effettiva perdita delle capacità sensoriali del protagonista durante un festino il quale, sempre più annebbiato dalla sua personale ricerca della verità, sarà in seguito costretto a riflettere per la prima volta sul senso di realtà e sul potere dell’arte.
Un’arte che acquisisce un suo senso solo nel momento in cui si viene a patti con l’insensatezza del reale. Così, parafrasando ancora il testo dei Baustelle, il disinganno del mondo appare chiaro nel momento in cui accettiamo di guardarlo: a questo punto anche una partita a tennis immaginaria diventa reale, talmente reale da poter afferrare una pallina inesistente e udirne il suono.