Generalmente trascurato se non proprio dimenticato, l’ultimo film di Augusto Genina, che sarebbe morto due anni dopo l’uscita in sala, non è solo la summa poetica di un regista cosmopolita, ma anche il punto d’arrivo del suo ultimo frangente di carriera, cioè quello del secondo dopoguerra, dedicato allo studio della figura femminile.

Scritta da lui stesso assieme, tra gli altri, al vecchio sodale Alessandro De Stefani, è la piccola epopea, strutturata in flashback, di una ex cameriera che, sedicenne, viene plasmata da un quartetto di ricchi signori annoiati e nullafacenti, improvvisati pigmalioni di un diamante grezzo da educare ai valori cortesi e da introdurre nel bel mondo. Diventata canzonettista, rifiuta le avances del più saggio di loro e vola in Russia con un principe, per poi tornare in Francia, all’indomani della Rivoluzione, con una vita da ripensare.

Accadono molte cose in cinquant’anni di vita, i cui passaggi temporali ed esistenziali sono determinati dai diversi colori dei capelli di Dany Robin, segno evidente di come Genina sia interessato all’inafferrabilità della donna, che peraltro solo nel finale riesce ad emanciparsi dalla finzione costruitale in gioventù. Frou-Frou è il doppio di Antonietta, nome che sentiamo unicamente nei primi minuti, come un’identità da accantonare in favore della sua rappresentazione più mondana o, se si vuole, al pari di una iconica eroina da feuilleton che sono gli stessi quattro "creatori" a mandare avanti, spesso con le loro azioni indirette.

Sono loro a trasmettere il senso del tempo che scorre, perfino i loro abiti che passano dall’impeccabile eleganza dei galà d’inizio secolo al grigio imborghesimento degli anni Trenta: soprattutto lo sfaccendato principe russo Gino Cervi, che porta in dote l’universo decadente ed autoreferenziale degli aristocratici esuli dopo la rivoluzione, con l’apparizione lunare del grande Misha Auer e l’algida granduchessa Marie Sabouret doppiata dalla già eccezionale Franca Valeri.

Superproduzione franco-italiana, impreziosita dallo spettacolare Cinemascope e dai colori sgargianti della nostrana Ferraniacolor (la fotografia è del superbo Henri Alekin), è l’ultima tappa del mondo fatalista di Genina e la più libertina della sua produzione sonora del dopoguerra, in una confezione dominata dalla grandeur scenografica che fa rivivere mondi avvezzi a un regista memore della Belle Époque e con curriculum lungo ed eclettico (apice: la lussuosa e lussuriosa festa degli artisti, le cui scene più audaci sono espunte dalla casta edizione italiana). Plausibile che la critica venduta alla sponsorizzazione di artisti giovani senza talento ma con ottimi appoggi sociali sia una malcelata stoccata del vecchio Genina contro chi, già allora, lo trascurava.