Il pugile mancato John Huston avrebbe sorriso dell'uno-due Wise Blood-Giungla d'Asfalto passato sullo schermo del cinema Arlecchino ieri pomeriggio, con una gemma per pochissimi fortunati (modo delicato per dire "flop") cui fa seguito un'opera di valore quasi totemico; in realtà gli inizi sono stati incerti anche per quest'ultima: durante la presentazione si è citato il famoso aneddoto secondo cui Louis B. Meyer appena la vide finita disse "non attraverserei nemmeno la strada per guardare spazzatura del genere". Il numero relativamente esiguo di italiani in una sala grande e pienissima parla chiaro: 67 anni dopo quella sentenza si attraversa il mondo per guardare film come Giungla d'Asfalto.

Per un regista hollywoodiano Huston è sempre stato poco legato al genere, a qualsiasi genere; spulciando fra le sue quasi quaranta regie troviamo due film d'avventura, due western, un solo vero war-movie, una commedia, un musical, due biopic. Mai più di una toccata e fuga; per la maggior parte ha adattato romanzi o racconti, con uno spirito che riassumeva in "lo stile è l'adeguamento della parola e dell'azione all'idea"; di qui la proverbiale polimorfia - all'interno della quale resta inconfondibile - che complica le carte quando si tratta di classificare tante sue opere e che ha fatto sì che il suo sguardo sui generi classici sia stato quello di un outsider, alle volte di un profondo innovatore.

Il noir rappresenta un'eccezione per la costanza con cui il regista lo ha frequentato, soprattutto nella prima parte della carriera; ma anche la maggior conferma per quel che concerne questo sguardo: Huston ha aperto almeno due vie al genere con capolavori stilisticamente antitetici come Il Mistero del Falco (1941) e appunto Giungla d'Asfalto. Il primo un trattato hawksiano di regia invisibile destinato a fare scuola col suo stile secco ed essenziale; il secondo un fiume in piena, emotivo fino al midollo come vent'anni dopo sarà Fat City (1970) e punto d'incontro di due tòpoi del suo cinema: la lotta insensata ma eroica dell'uomo col mondo e la capacità che ha il desiderio di profitto di farlo regredire a bestia, come succede a Bogart nel Tesoro della Sierra Madre. La "Giungla" del titolo è la grande città, dove quella lotta si svilisce nella ricerca dell'utile; per il sistema di valori del regista è l'inferno in terra.

Ecco perché – come in ogni heist movie di qui in poi - tifiamo per i criminali, forse la più umana e commovente galleria di ritratti di sempre: non che la polizia abbia torto a combatterli ("..che faremmo se restasse solo il silenzio?") ma in ognuno di loro brilla qualcosa come la stella de Gli Spostati, bella e lontanissima perché la Giungla se li prenderà tutti: il gobbo Doc ha l'amicizia, l'avvocato Emmerich un briciolo di dignità da salvare, Louis una moglie e un figlio piccolo; quando in un film anche le comparsate di un secondo hanno spessore drammatico, si rischia di dimenticare che sono personaggi scritti e interpretati; in due di loro c'è tutto Huston: l'anziano gentleman mitteleuropeo "Herr Doktor" Riedenschneider, che sogna il sole del Messico e si farà prendere per guardar ballare una ragazza, e il Dix del torvo e imponente Sterling Hayden che guida oltre l'Asfalto verso i cavalli della sua infanzia.

“..And back at the Wilshire, Pedro sits there dreaming / he's found a book on magic in a garbage can / He looks at the pictures and stares at the cracked ceiling / -at the count of 3-  he says,  -I hope I can disappear- / And fly fly away, from this dirty boulevard.....”