Curioso il destino de I fidanzati della morte: pensato per una grande distribuzione internazionale, trascurato dopo l’uscita in sala, esce da sessant’anni di oblio grazie ad un’operazione di crowdfunding che ha coinvolto ventidue paesi nel mondo. Nel corso del tempo, il mistero attorno a questo film ne ha accresciuto lo statuto mitico presso i patiti dei motori, diventando un cult soprattutto per la sua irreperibilità. Dietro la macchina da presa c’è Romolo Marcellini, un regista passato dai documentari propagandistici della stagione colonialista fascista alla candidatura all’Oscar per il miglior documentario per La grande Olimpiade. In mezzo, parecchi lavori di finzione tranquillamente dimenticati, tra cui questo I fidanzati della morte che, paradossalmente, vale molto di più per il suo valore documentaristico.

Alla prova dei fatti, cioè dopo il restauro promosso dalla Rodaggio Film, si capisce bene il motivo per cui un nutrito gruppo di ammiratori l’abbia atteso così tanto. Girato nel 1956, il film contiene immagini dal vivo delle più spettacolari gare motociclistiche del periodo, compresa la oggi inconcepibile Milano-Taranto che fu sospesa, come tutte le altre gare su strada, proprio un anno dopo le riprese, in seguito alla tragedia di Guidizzolo accaduta durante le Mille Miglia. Per queste circostanze, Marcellini diventa l’uomo giusto al momento giusto perché è l’ultimo a testimoniare un mondo perduto e, immortalando le gesta dei maggiori centauri dell’epoca nonché la ruspante passione del pubblico, rende I fidanzati della morte un documento importantissimo per gli studi su costume e società degli anni Cinquanta, peraltro servendosi della fiammeggiante fotografia di Aldo Giordani, tutta giocata sulle cromature del rosso e del blu.

Questa dimensione di rilevanza culturale, che ne fa comunque un interessante oggetto di modernariato, è completata da una narrazione che aspira a trattare il grande tema della morte attraverso la fascinazione che esercita sui temerari ed ambiziosi motociclisti, disposti a tutto pur di dimostrare la propria supremazia. Immancabile il filone amoroso, gestito senza sorprese da figurine prevedibili, certo non aiutate dalle modeste interpretazioni dello strano cast: se Rik Battaglia è più a suo agio nei melodrammi paludari La donna del fiume e La risaia e Sylva Koscina si allenava al divismo, non si sa come siano finiti qui la polacca Margit Nünke e l’uruguayano Gustavo Rojo. Spunta anche il grande Hans Albers, alla sua ultima prova (al Cinema Ritrovato l’abbiamo ammirato in Große Freiheit Nr. 7). Incredibile dictu, alla sceneggiatura mise mano perfino Franco Solinas, che nello stesso anno iniziava a collaborare con Gillo Pontecorvo.