Pochi registi al mondo come John Huston sono riusciti ad attraversare quarant'anni di storia del cinema mantenendo fede alla propria poetica e adattandola alle innumerevoli forme espressive del cinema americano. La saggezza nel sangue, sceneggiato da Michael Fitzgerald a partire da un romanzo di Flannery O'Connor, è la seconda incursione del maestro, dopo il folgorante Città amara, nei territori aridi e disperati della New Hollywood che si sposano alla perfezione con l'affetto sconfinato di Huston verso i disadattati.
La parabola tragicomica di Hazel Motes, giovane reduce di guerra determinato a fondare una propria chiesa libera dalla figura di Gesù Cristo, è il perfetto ritratto di un'America allo sbando dopo la fine del Vietnam, una generazione che ha rinunciato ai valori di Dio e della Patria per cercare una nuova forma di autodeterminazione ma non riesce a fare altro che girare a vuoto e subire la crudeltà della società moderna. Nonostante sia ben presente la critica alla figura dei predicatori religiosi e allo sfruttamento della fede a scopo di lucro, John Huston non mette in scena un'opera di denuncia sociale ma un dolente racconto sulla disperata solitudine della gioventù americana, alla ricerca continua di una figura paterna di riferimento o di un santo a cui appellarsi.
Film di figure erranti e schizofreniche, La saggezza nel sangue non poteva che essere ambientato nel profondo sud degli Stati Uniti, culla dell'american white trash fatta di razzismo congenito e accenti quasi incomprensibili, ritratta da Huston con precisione fotografica come rimarcato dagli scatti in bianco e nero che accompagnano i titoli di testa ma al contempo ricca di un fascino bizzarro e astratto, molto più simile a un luogo dell'anima che a un territorio circoscritto da confini geografici. In questa lunga galleria di case consunte, cinema di periferia e officine meccaniche malconce si muove un'umanità grottesca e delirante che trova in Hazel Motes il suo miglior rappresentante: un pazzo che tenta di portare la salvezza ad altri pazzi ma che può solo soccombere alla sua condizione, come tutti gli antieroi degli anni Settanta, e cercare nel martirio fisico una qualche forma di espiazione morale.
Lo stile registico di John Huston, nella sua semplicità, riesce a dare al film la giusta atmosfera opprimente carica di humor nerissimo, ma ciò che più lascia allibiti gli spettatori è la sensazione di assistere all'opera prima di un giovane regista pieno di talento e non all'ennesimo gioiello di un decano del cinema con più di trenta lungometraggi alle spalle. La sapienza di John Huston si riscontra anche nella scelta degli attori, presi tutti dal grande bacino di talenti della new Hollywood: nel ruolo del protagonista troviamo lo spiritato Brad Dourif, l'indimenticabile Billy Bibbit di Qualcuno volò sul nido del cuculo, e ad affiancarlo vi sono comprimari d'eccezione come Harry Dean Stanton, grandioso volto-paesaggio del cinema americano, e il corpulento Ned Beatty preso a prestito da Un tranquillo weekend di paura di John Boorman.
La saggezza nel sangue spicca nella lunga carriera di John Huston come un piccolo film segreto che racchiude l'intera ideologia del cinema degli anni Settanta, un'eccentrico viaggio nella disperazione umana la cui potenza rimane assolutamente immutabile a distanza di quarant'anni.