Girato in buona parte nella Toledo dove realmente accaddero i fatti narrati e dedicato ai vittoriosi che perirono nel conflitto, L’assedio dell’Alcazar ricostruisce una delle prime battaglie della guerra civile spagnola, immediatamente successiva al colpo di stato mosso dai nazionalisti, ispirati dal generale Franco, contro il governo repubblicano. Cosa c’entri il cinema italiano con questo evento è evidente: siamo nel 1940, Mussolini aveva bisogno d’ingraziarsi il caudillo di Spagna nella prospettiva bellica e il film suggellava proprio l’amicizia fra i due dittatori. Tant’è che, a parte un breve cenno inserito quasi per dovere di cronaca, il regime fascista non ha alcun ruolo in questa fiera ed accorata celebrazione dell’eroismo iberico.
Il film di propaganda ufficiale accoglie al suo interno un film di propaganda indiretta: attraverso l’esaltazione del coraggio militare e civile spagnolo, il fascismo veicola il messaggio in grado di infiammare gli animi della nazione giunta “all’ora delle decisioni irrevocabili”. Al netto della dimensione ideologica comunque imperante, dominato da un manicheismo oggi francamente ridicolo (i repubblicani sono ça va sans dire atei, crudeli, repellenti, spregiudicati) e da una lettura della storia perlomeno discutibile (si sorvola ovviamente sull’uso cinico che i nazionalisti fecero dei civili rifugiati nel palazzone), il film dimostra ancora una volta la chiara abilità di Augusto Genina.
Grande orchestratore di masse, tanto i cittadini smarriti nell’angoscia della guerra ma affidati al volere divino quanto i soldati caduti in combattimento, il regista si esalta nelle scene belliche e riesce a trasmettere un realismo documentaristico e spettacolare che cerca di coniugare il gigantismo dell’operazione industriale all’epica del racconto apologetico. D’altro canto, quando non trionfa l’azione, il film denuncia più di un limite, specie nel tratteggio un po’ grossolano dei personaggi, più o meno tutti tagliati con l’accetta della stilizzazione. Se da un lato spiccano i soldati franchisti involontariamente tronfi e retorici, la cui condotta non è mai pervasa dal benché minimo sospetto, dall’altro ci si chiede dove Mireille Balin possa mai trovare il tempo e i mezzi per essere sempre truccata anche sotto le bombe.
Come nel precedente Lo squadrone bianco e nel successivo Bengasi, che compongono la trilogia bellica di Genina, elemento forse più importante dell’evidenza che siano tre propagande di regime, le spalle robuste del rassicurante divo Fosco Giachetti s’incaricano di garantire la credibilità necessaria per empatizzare e al contempo rispettare il plotone dei combattenti.