Tutt’altro che sprovveduto in materia, Mussolini credeva davvero che il cinema fosse “l’arma più forte dello Stato”. Soprattutto nella seconda metà degli anni Trenta, in concomitanza con la guerra d’Etiopia, il regime pretese dall’industria cinematografica un impegno diretto ed inequivocabile, inquadrando il suo interesse con “l’interesse della Nazione”. Parliamo del cinema di propaganda che, come sempre, contiene i lavori di lacchè di turno o intellettuali militanti ma anche – o soprattutto – i film di alcuni professionisti incaricati di veicolare il messaggio politico proprio in virtù della loro indiscussa competenza.

Tutto ciò per dire che è indubbio che Lo squadrone bianco sia un film di propaganda; ma non che Augusto Genina non sia un regista di regime – o comunque non esclusivamente e non necessariamente. Genina viene da lontano, la sua sterminata filmografia del periodo muto testimonia la personalità eclettica ed internazionale di un regista che alloggia ormai da un bel po’ nell’affollato “albergo degli assenti” del cinema italiano. Nel suo genere, Lo squadrone bianco è tra i risultati meno fascistissimi e più accettabili ai nostri occhi, non solo per l’universalità di certe tematiche (l’eroismo, il sacrificio del servitore della Patria, la devozione dei sottoposti al capitano) che lo inseriscono a pieno titolo nel filone dei film sul mito della legione, come La bandera del mai troppo ricordato Julien Duvivier, che quantomeno riesce a restituire l’immagine e il senso di un mondo perduto e idealizzato, tradotto e celebrato dalle pagine della letteratura popolare (in questo caso L’éscadron blanc di Joseph Peyré).

Eppure a rendere il film così interessante è la scrupolosa cura formale. Non a caso, sui titoli di testa, si fa menzione delle riprese dal vivo, negli esterni del deserto della Libia: non solo la dimostrazione dell’impegno finanziario del regime ma anche un fiore all’occhiello per Genina, che proprio nel secondo tempo guerresco dà una prova di grande raffinatezza visiva. Dall’incipit italiano, con la festa mondana e il successivo litigio fra i due protagonisti, si passa all’afosa avventura bellica con una tensione antiborghese che da una parte esalta il valore umano, civile e militare sia del solido e predestinato capitano Santelia che del tenente Ludovici (per lui trattasi di racconto di formazione: da fatuo amoroso a prode combattente) e dall’altra diffida delle moine mondane di Cristiana, la donna che, non corrispondendo al suo amore, induce Ludovici ad arruolarsi.

Al nostro sguardo contemporaneo, poi, la recitazione asciutta e rigorosa di Fosco Giachetti, capitano quasi cristologico, rende francamente insopportabile il birignao della meteora Fulvia Lanzi e del divo di regime Antonio Centa.