Un film fondamentale: per la prima volta, il racconto viene organizzato in flashback che non seguono l’ordine cronologico. Se si esamina anche l’argomento, ascesa e declino di un rude magnate, ecco che subito pensiamo a Quarto potere. Ma Potenza e gloria anticipa Orson Welles di almeno otto anni, e basterebbe questa intuizione per regalare a Preston Sturges, autore della sceneggiatura, un posto nella storia. Al contempo, il lavoro capitale di questo grande sceneggiatore non deve adombrare quello del regista che lo mise in scena: pur non spingendo come il Welles che verrà, William K. Howard, forse percependo la dimensione seminale del film, adotta soluzioni versatili e ricercate per raccontare una storia fatta di frammenti di varia natura (il lieto passato rurale, quadretti domestici pervasi di un candore minaccioso, tesi momenti lavorativi, il cupissimo sciopero…) tenuti insieme dalla voce di un narratore interno.

Il fedele Henry interpretato dal finissimo Ralph Morgan, in quanto (unico) amico dell’oggetto del racconto, ha un’autorevolezza di per sé discutibile; ma, essendo il solo a vedere del buono in un uomo odiato da tutti, è anche colui che fornisce un punto di vista alternativo, forse quello maggiormente interessante per scandagliare il mistero di Tom Garner e perfino più vicino alla presunta realtà. Nato povero, sposatosi con una maestrina che gli insegna a leggere, scrivere e far di conto, diventato imprenditore e infine rampante padrone delle ferrovie, Garner è un personaggio larger than life, che il giovane Spencer Tracy, fiero e fragile, impersona con un senso di progressiva predestinazione al fatalismo, accogliendo, a pochi anni dalla grande crisi, tutti i turbamenti repressi e i non-detti del capitalismo americano.

Personaggio emblematico, un ferito a morte che si fa travolgere da coloro che credeva di poter gestire, dal figlio viziato all’amante poi moglie opportunista, e che all’estremo trova la sua Rosebud nel mai dimenticato amore con Sally, sacrificata sull’altare della storia per far scattare la molla del trauma di un uomo che è la sua nazione. Assistito dalle mirabolanti luci di James Wong Howe, più rassicuranti nell’oscurità delle verità svelate che nella nitidezza delle menzogne reiterate, Howard fa ardere il mélo sotto le ceneri del dramma, accompagna lo spettatore in un percorso che diffida della verità ufficiale e lo invita retoricamente a scegliere se credere all’empatico punto di vista del fedele Henry o alle malevoli chiacchiere di chi non piange al suo funerale.