Guardando Yakuza (1974) riconoscerete all'istante lo stile dell'esordiente sceneggiatore Paul Schrader, che scrisse il film basandosi sul resoconto dell'esperienza in Giappone del fratello Leonard; trama e personaggi devono tutto alla sua filosofia dello scacco e della solitudine, la stessa che un paio di anni dopo troverà in Taxi Driver l'espressione più compiuta; "Yakuza. Il kana giapponese per questa parola è composto dai numeri 8, 9 e 3. In totale 20: un numero perdente nel gioco d'azzardo giapponese. È così che i gangster giapponesi, in un atto di orgoglio perverso, hanno chiamato se stessi.." E ancora "..quando un Americano perde la testa apre la finestra e spara a degli estranei. Quando un Giapponese perde la testa chiude la finestra e si uccide. È tutto al contrario..".

Non stupisce che in seguito abbia dedicato un film allo scrittore nazionalista Yukio Mishima, cantore disperato della dissoluzione dei valori morali del Giappone antico e morto suicida come un Samurai nel 1970.

Il mondo di Yakuza corre incontro alla stessa degradazione, vetro e cemento divorano le abitazioni tradizionali con i delicati shoji di legno mentre il senso dell'onore sbiadisce in un opportunismo da sciacalli; ma qualcosa vive ancora: ai margini della società si muovono uomini che sono "reliquie di un altra età, di un altro paese" come l'ex-Yakuza Tanaka Ken (Takakura Ken); l'occidentale Schrader - memore della lezione del noir e del western alla Peckinpah - gli affianca il “gemello” americano Harry Kilmer (Robert Mitchum) allargando il discorso oltre i confini del solo Giappone; si crea così un dualismo sofisticato e struggente, complici due interpreti in forma smagliante, fra mondi e personaggi tanto distanti quanto perfettamente sovrapponibili.

Ma una grande sceneggiatura non basta; se qui Schrader riesce tanto riconoscibile, è perché alla regia c'è Sydney Pollack (1934-2008) e Pollack era uno di quei maestri americani in grado di scomparire nella storia con apparente umiltà per esaltarne al massimo le qualità intrinseche. Secondo John Milius, Coppola disse una volta all'autore del Padrino Mario Puzo "farò un film che ti assomiglierà più di te"; e lo stesso a lui per Apocalypse Now. Pollack ha tenuto perfettamente testa a Milius - fra i più geniali, estrosi e difficili sceneggiatori della sua generazione - divenendo per Corvo Rosso non avrai il mio Scalpo tonitruante e bigger-than-life quasi quanto lui; con il regista di American Gigolo va anche oltre, letteralmente "più Schrader di Schrader".

Porta al succo le sue doti di narratore di razza, raggiunge un'essenzialita davvero "orientale" (si parla di rapporti difficili con la troupe giapponese, ai cui metodi di lavorazione dovette imparare ad adattarsi), crea un impianto visivo estetizzante senza precedenti: è il suo capolavoro, e uno dei capolavori degli anni '70. Ridley Scott (Blade Runner, Black Rain) e Michael Cimino (L'anno del Dragone) hanno studiato attentamente questa metropoli buia, battuta dalla pioggia incessante, rischiarata dai neon e ibrida di tratti nipponici e americani; Quentin Tarantino ha omaggiato in Kill Bill - nella scena degli 88 folli - l'impressionante showdown finale a colpi di Katana, con coreografie e scelta di inquadrature a volte al limite dello shot-for-shot; una sequenza talmente moderna, fra simmetrie e vertiginosi plongèe, che verrebbe più naturale collocarla nel 2003 che non nel '74; a tanti anni dalla sua realizzazione, Yakuza continua a insegnare cinema.