Si sa, i film riconducibili alla Nouvelle Vague non nascono per compiacere i gusti del pubblico, dal momento che hanno una finalità autoriale prima ancora che commerciale. Il fenomeno Nouvelle Vague esplode in un periodo di profonda trasformazione dell'industria cinematografica francese, se non altro perché a partire dal 1959 il cinema non dipende più dal ministero dell'industria e del commercio, ma fa capo al ministero della cultura. Ed ecco che, grazie ad una maggiore sensibilità verso l'approccio artistico, iniziano a spuntare pellicole il cui andamento sul mercato è difficilmente prevedibile. Cléo dalle 5 alle 7 sembra sottintendere il conflitto tra un cinema che guarda al mercato e un cinema che guarda all'autore: attraverso la vicenda della protagonista, Agnès Varda tesse un'argomentazione a favore del secondo, affermando la propria autorialità  fatta di cinécriture e di fusione tra film di finzione e documentario, o meglio, auto-documentario.

Tema centrale della pellicola è la conquista dello sguardo, che si sviluppa su due livelli: il primo è quello di Cléo, che tenta di emanciparsi da un'auto-rappresentazione idealizzante e accecante; il secondo è quello dello spettatore, chiamato ad emanciparsi da una rappresentazione stereotipata della donna e da un cinema commerciale, e a guadagnare uno sguardo critico.

All'inizio del film, Cléo sembra ferma allo stadio dello specchio, un po' come lo spettatore cinematografico: si sforza di credere alla propria immagine riflessa, ma si tratta di un'immagine idealizzata, di una maschera di femminilità. Resta una donna frammentata, letteralmente frammentata dalla rifrazione degli specchi e dalle ripetizioni di montaggio, oltre che da un vestito pointilliste. Come un film nato per accaparrarsi spettatori implica il ricorso a una ricetta di successo e dunque, esasperando il concetto, predilige la passività autoriale, così Cléo attira gli sguardi di altri che non può vedere se non come specchi e, in quanto donna-oggetto, soddisfa tutti i cliché della passività femminile: è la bionda, la bambina, la gattina, l'angelo, la bambola, la diva e, ironicamente, persino la malata.

La recita dura fino alle 17.40, momento in cui nella stanza-palcoscenico la mascherata si fa talmente evidente da comportare una presa di coscienza da parte della protagonista. La svolta è segnata da un cambio d'abito che questa volta non è più una vestizione passiva, ma una scelta dettata dalla soggettività, vale a dire, nell'accezione barthesiana, un passaggio dal costume all'abbigliamento. Così, allo shopping si sostituisce la  flânerie, Cléopâtre diventa Florence (forse un eco di Ascensore per il patibolo) e può finalmente guadagnare uno sguardo. Anche se il finale aperto nega la certezza di un cambiamento definitivo, almeno la protagonista ha provato a liberarsi dei cliché, così come Cléo dalle 5 alle 7 ha provato a formare uno spettatore critico.  Dopotutto mercato e autorialità coesistono, così come il tempo oggettivo e quello soggettivo, ragione e  superstizione, fiction e documentario, o Florence e Antoine.