Atlanta, giochi olimpici del 1996. Richard Jewell è una guardia di sicurezza che una sera, durante un concerto, grazie alla meticolosità con cui svolge il suo lavoro, riesce a scorgere uno zaino sospetto e a limitare i danni che deriveranno dalla deflagrazione dell’ordigno in esso contenuto, salvando così centinaia di vite ed evitando una strage.  Applica la procedura, si fa qualche domanda in più dei suoi colleghi e sopratutto considera il suo lavoro il più importante del mondo.  Lui proteggere il prossimo, come ribadisce più volte. 

Più che un eroe, come la stampa lo battezza subito dopo l’accaduto, salvo poi umiliarne poco dopo il nome con odiosi e improbabili sospetti, Richard Jewell è un uomo che trovandosi nelle condizioni di fare la cosa giusta è assolutamente risoluto nel decidere di farla, deciso e dunque decisivo. Tutta la vicenda viene posta dalla stampa proprio nell'ottica dell'eccezionalità del singolo gesto, un eroe o piuttosto, poco dopo, ritrattando, un falso eroe, come l'FBI farà di tutto per farlo apparire. Il bisogno dei media, ma non di meno, anche di una intera collettività, di eleggere eroi che spiccano fra la folla per azioni meritorie ed eccezionali è uno dei primi sintomi che qualcosa, in una società, si sta rompendo.

In questa ottica possiamo provare infatti a rileggere le ultime opere di Eastwood, tutte tratte da storie realmente accadute, che sembrano disegnare una sorta di mitografia della figura dell'eroe, raccontato da punti di vista sempre nuovi. L'eroe è spesso colui che compie un gesto che altri non avrebbero potuto compiere, ma per Clint è sopratutto colui che si assume la responsabilità di compierlo. Più che persone con doti fuori dal comune (cosa che li renderebbe ineguagliabili) si tratta di individui che riescono a fare la differenza perché dotati sopratutto, di una integrità morale, questa sì sopra la media, capaci di fare la cosa giusta travalicando ogni prudenza. Sono esempi, semmai, più che eroi. Ecco che questa attenzione al singolo individuo e al valore del gesto che compie vuole  porre in realtà l'attenzione, per inversione, su tutti quelli che, potendo assumersi la responsabilità di intervenire, in effetti, non lo hanno fatto.

Nel suo cinema, mentre mette insieme un tassello dopo l’altro questa sua macro narrazione sul “fattore umano”, su questa idea di umanesimo orgoglioso e solitario, troppo spesso schiacciato dalle istituzioni ma capace di incidere profondamente nella Storia e in una società attraverso il suo agire, il regista intreccia una affascinante riflessione teorica sulle possibilità del mezzo cinematografico di raccontare la realtà, ripensarla, elaborarla e riportarla ad una riflessione collettiva.

Non è un caso che nel film veniamo messi davanti ad un inganno perpetrato dall'FBI ai danni dell'ingenuo Richard Jewell: un finto interrogatorio mascherato da documentario per le nuove reclute, un'intervista, che in realtà nasconde un modo subdolo per incastrarlo. Tuttavia, per poterlo rendere credibile, serve una telecamera accesa. E così vediamo un cameraman riprendere il finto interrogatorio per dare uno statuto di credibilità a questa perversa impostura. Occorre che un mezzo di ripresa trasformi in realtà una finzione.

Come non vedere in questa scena quasi paradigmatica anche un modo per sottolineare il peso, la responsabilità dei media e il loro potere di rendere reale, di trasformare, di dare visibilità e quindi anche al tempo stesso di ingannare, di nascondere, di influenzare. Scegliere cosa riprendere e come è sempre anche un atto morale e in un film dove l'informazione giornalistica è ovunque, assedia, cerca il sensazionalismo, l'audience e la seduzione facile del pubblico, una scena come questa, mentre mostra una disillusione cocente di Eastwood verso quelle forze che dovrebbero garantire la sicurezza dei cittadini, ci appare quasi un monito a non dare mai per scontato che una telecamera accesa sia indice di realtà. Leggiamo dunque sotto questa luce la decisione del regista di riempire di schermi televisivi perennemente accesi ogni ambiente del film e il suo mescolare riprese che sembrano d’epoca a riprese che invece effettivamente lo sono (il tutto, non dimentichiamocelo, reso straordinariamente credibile dalla studiatissima fotografia di Yves Bélanger).

Come accadeva anche alla consegna delle medaglie nel finale di Ore 15:17 – Attacco al treno, nella quale realtà e finzione si mescolavano in un cortocircuito fortissimo e spiazzante (su cui ancora non si è ragionato abbastanza) là dove i protagonisti del film, essendo stati anche i veri protagonisti della vicenda, erano al contempo sia persone che personaggi, con le attrici che interpretavano le madri a fianco delle vere madri dei protagonisti, anche qui ci troviamo di fronte ad una scena che, analogamente, porta con sé una simile sovrapposizione concettuale: la madre di Jewell, l’attrice Kathy Bates, nel salotto della sua casa, guarda una intervista del figlio. Quello che sta guardando in televisione però è il vero Richard Jewell in un telegiornale dell’epoca.

Quello che sta accadendo in effetti davanti ai nostri occhi è che, per un momento, il cinema si è fermato a guardare la realtà, in un ideale dialogo col senso profondo della sua rappresentazione e col valore stesso della sua messa in scena. L'illusione cinematografica viene così improvvisamente innervata di verità: la testimonianza concreta si salda con la sua ricostruzione, il passato e il presente si mescolano e  il personaggio, la sua storia, il suo vissuto non sono più distanti e inavvicinabili, ma sono qualcosa che ci appartiene davvero, qui e ora. 

Ancora un volta ci troviamo come spettatori ad abitare un luogo imprevisto e straniante, condotti per mano in questo nuovo cortocircuito finzionale, da un maestro ormai novantenne, che non smette di guardare al cinema con una modernità e una voglia di sperimentare che non può non lasciarci stregati. Ed è anche in questa sua ostinata fiducia nelle possibilità del mezzo cinematografico che risiede l’intento altamente morale del cinema di Clint Eastwood.