“Due fratelli. Un legame di sangue” recita il trailer di Come pecore in mezzo ai lupi, definendo ambiguamente il legame di parentela che unisce Vera (Isabella Ragonese), poliziotta infiltrata in una banda di criminali serbi, e Bruno (Andrea Arcangeli), giovane rapinatore da poco con già un passato a San Vittore alle spalle e Marta, una figlia piccola da mantenere. Quando, dopo anni i due fratelli si ritrovano inaspettatamente, il loro rapporto diventa di sangue per la violenza scatenata dal casuale incontro, che rischia di far saltare l’operazione di polizia a cui Vera lavora da mesi.

Coinvolgente opera prima di Lyda Patitucci che, per i numerosi pregi, meriterebbe una distribuzione anche nella stagione autunnale, Come pecore in mezzo ai lupi stravolge gli equilibri del genere e di genere, presentando una donna poliziotto definita dal suo lavoro più che non dalle sue relazioni, e un criminale maschile fragile e introspettivo.

Isabella Ragonese e Andrea Arcangeli utilizzano al meglio la sceneggiatura di Filippo Gravino per un ritratto a specchio e complementare dei due fratelli. Vera, nome paradossale, ha rinunciato completamente alla sua esistenza civile tanto da non voler essere chiamata con il suo vero nome nemmeno dai colleghi. Il fratello rappresenta per lei quel pericolo di legami famigliari che la possono indebolire e da cui è fuggita anni prima. Al contrario, Bruno vede nella sorella quel distacco ed egoismo che gli servirebbe per fare colpi importanti ma che non riesce ad avere.

Indubbio merito del film è quello di guidarci in un’indagine sulle paure dei personaggi attraverso una narrazione generalmente serrata e quasi mai scontata, in una Roma prevalentemente notturna e anonima, fatta di parcheggi e distributori di benzina, appartamenti impersonali presi in affitto e giostre di luna park da cui persone (e animali) precipitano vertiginosamente verso il basso.

Se per Marta perdere l’equilibrio può essere ancora un gioco, Vera è consapevole della cautela che deve mettere in ogni azione e sentimento, “come pecore in mezzo ai lupi” per citare il Vangelo di Matteo che dà anche il titolo al film. Le diverse cadute che puntellano il film sposteranno progressivamente Vera dalla razionalità fredda che la caratterizza inizialmente a reazioni più emozionali che, tuttavia, ulteriore merito di Come pecore in mezzo ai lupi, non trasformano il racconto in un revenge plot già visto.

Come si diceva, lo spazio urbano è largamente anonimo e, significativamente, nella disgregazione dei rapporti famigliari e comunitari che Patitucci e Gravino indagano, i riti religiosi o di passaggio sono celebrati in luoghi impersonali come la saletta interna di un bar o un battistero improvvisato in un giardino privato. Paradossalmente, le sfere professionali e familiari di Vera si incontrano ancora una volta in questi riti: sia il boss serbo, che recita l’Ecclesiaste e una rivisitazione del Padre Nostro, sia il padre di Vera a capo di un gruppo religioso che assomiglia ad una setta, li amministrano senza alcun titolo e senza amore, con la violenza del tornaconto personale.

Insieme al Monumento a Mazzini sull’Aventino, di cui vediamo, nelle scene iniziali, il solo basamento senza che sia inquadrato il politico risorgimentale, altro luogo identificabile è l’esterno della Basilica dei Santi Pietro e Paolo, simmetricamente posto alla fine del film e teatro di un conflitto a fuoco girato in modo asciutto, senza indugi in ralenti o dilatazioni parossistiche dell’azione.

Se il primo mantiene, nel contesto filmico, il suo originario simbolismo di aspirazione alla Libertà, condizione a cui Vera vuole arrivare, il secondo, per contrasto, perde il suo carattere di celebrazione di fratellanza nella Fede, esaltata dal monumentalismo fascista, diventando un significante instabile in cui Vera scrive, al tempo stesso, il suo tradimento e la sua emancipazione.