Nel 1929, un anno prima del suo esordio con la Metro-Goldwyn-Mayer che la lancia nel mercato cinematografico statunitense, Conchita Montenegro recita in Conchita di Jacques de Baroncelli, la sua sola ed unica interpretazione su suolo francese. In quell’anno Montenegro ha sedici anni, è una ballerina professionista di danza classica e di flamenco e nel film di Baroncelli interpreta una seducente e ammaliante danzatrice di cui si innamora perdutamente lo sciupafemmine don Mateo (Raymond Destac) che fa davvero di tutto pur di averla, facendosi lasciare per poi riprenderla, distaccandosi per tre giorni come da sua volontà, ancora riabbracciandola e (finalmente) baciandola per poi dimenticarsi di lei. O almeno, ci prova.

Una storia d’amore estremamente sofferta quella tra Conchita e Mateo perché entrambi, uomo e donna subiscono dolore per tutto il corso degli eventi, sebbene sia anche vero che solo uno di loro alla fine riesce a portare a casa la vittoria. E quel qualcuno è Conchita. Conchita che sa cosa vuole e sa pure come possedere un amore più che corrisposto, ma le va di giocare, ride (molto, e in maniera impeccabile), si prende gioco di tutti e si prende gioco di noi spettatori che speriamo nella classica storia a lieto fine, ma rimaniamo anche noi rapiti dalla danza frenetica e trainante del corpo di Conchita, dimenticandoci dell’esistenza di un tempo, di uno spazio e di un lieto fine apparentemente necessario. Tanto che uno spazio concreto, in realtà non c’è. Sì, ci sono gli enormi e fastosi saloni da ballo tradizionale in contrapposizione con le taverne dove le danze carnali prendono vita, situati a Cadice, a Siviglia o a Parigi, che ci sembrano non-luoghi perché potrebbero essere ovunque o da nessuna parte. È assente pure un tempo, tanto che qualche settimana ci sembra un’eternità, Conchita e Mateo sembrano fisicamente più maturi per il tempo impercettibile e dilatato a dismisura.

Il tempo e lo spazio trovano però la loro completezza nella danza sfrenata corporea fulcro del vero essere di Conchita, danza guidata dalla fotografia morbida di Louis Chaix che ammorbidisce i tratti, protagonista, fulcro degli eventi e pura forma d’arte nell’arte di plasmare gli uomini a proprio piacimento nella consapevolezza di un corpo che diventa scultura in movimento che si presta agli occhi, che incanta e conquista. Una danza che si presta ancora di più all’autenticità nella lunga scena di nudo integrale, quale culmine artistico delle inquadrature condotte dalla regia di Baroncelli.

L’ultimo restauro di La Femme et le pantin è stato curato nel 2020 dalla Fondation Jérôme Seydoux-Pathé che ha presentato al pubblico del Cinema Ritrovato il negativo originale francese, sebbene esistano versioni più rare sviluppate col procedimento Keller-Dorian che prevede la resa dei colori rosso, verdi e blu sul negativo in bianco e nero. La visione dell’ultimo restauro è stata accompagnata da Daniele Furlati al pianoforte, da Alberto Capelli alla chitarra flamenca e dalla cantaora Charo Martin che con la sua voce ha saputo trascinare il pubblico nella passione e nel talento di Conchita Montenegro, donandole voce e anima.