Non inizieremo questo articolo affermando che Cosa sarà è un cancer movie di origine autobiografica capace di portare sul grande schermo (con coraggio) la storia personale del suo stesso regista, Francesco Bruni (reduce da una mielodisplasia), anche se contaminata da una buona dose di invenzioni di fiction, evitando miracolosamente patetismi e scene volutamente “lacrimogene”. Ci limiteremo piuttosto a sottolineare, da subito, che l’ultimo film dello sceneggiatore e regista livornese d’adozione, specialista in commedie “di nevrosi” e nelle mezze tinte delle tonalità umorali umane, è senza ombra di dubbio il suo personale capolavoro, ossia uno di quei traguardi, nelle filmografie di un autore, che si raggiungono a un certo livello di maturazione della propria carriera, dopo aver partecipato alla stesura di quasi una trentina di sceneggiature in 30 anni (al fianco di registi come Paolo Virzì, Mimmo Calopresti, Roberto Faenza) pluripremiate come La prima cosa bella (David 2010), Il capitale umano (2014) Tutto quello che vuoi (2017) e 3 film da regista che lo portarono subito alla ribalta facendogli vincere con quel primo Scialla! la doppietta come miglior esordiente del 2012 sia ai David di Donatello che ai Nastri d’Argento.
Ma procediamo con ordine. Cosa sarà, dicevamo, nonostante racconti la storia di un regista Bruno Salvati/Kim Rossi Stuart, che scopre di avere un tumore e si destreggia tra le mille azioni di rito per venirne fuori (chemio, nausee, trapianti), non è esattamente un cancer movie per il fatto che la malattia non è qui punto di partenza della storia, bensì suo punto di arrivo. Nel momento in cui scopre di avere un cancro il protagonista, tramite le mille espressività del bravissimo Rossi Stuart (a tratti buffo, drammatico, attonito, incazzato, allucinato), conclude un percorso, fino ad allora irrisolto, dentro se stesso, che lo porta a riscattare la sua identità di uomo “fragile e debolino”, attraverso il recupero dei ruoli di figlio in primis, di padre, marito (separato) e infine anche di fratello. Un riuscitissimo dipinto di una mascolinità in crisi insomma, anche se in leggera ripresa (non per nulla Bruno/Kim troverà il coraggio di chiedere alla ex moglie di tornare insieme, una volta superata la malattia).
La struttura del film è così quasi impercettibilmente costruita (ed è qui che si cela la sapienza della scrittura) su un telaio di flashback e flashforward che rimescolando le consecutio temporum della storia narrata, rispetto ai fatti vissuti dal protagonista, ci fanno viaggiare per tutto il tempo sull’onda della sua percezione di ciò che gli accade, come navigando a vista in una enorme soggettiva capace di restituire allo spettatore una piccola parte di ciò che, da dentro, vive e prova l’ammalato: dal momento della diagnosi alle peripezie utili per “guadagnarsi” un trapianto compatibile, fino alla fase postoperatoria, passando per il dolore fisico, una dimensione onirico/farmaceutica (novità stilistica rispetto ai film precedenti), la paura di morire, la speranza di salvezza e, infine, il trionfale ritorno ad una normalità insperata.
Allo stesso modo il tono del film riesce a stare in equilibrio costante tra dramma e commedia, strappandoci un sorriso inaspettato nei momenti di plausibile commozione, come quando ci fa sbellicare per una “sportellata sul naso” che il protagonista si è inflitto involontariamente e che “interferisce” con la nostra commozione nell’evento che dovrebbe essere il più drammatico, quello della diagnosi della malattia. Una “sportellata” che ricalca fortemente la potenza semantica e narrativa di certe “padellate” in testa di neorealistica memoria. Ed è certo questa la carta vincente di Cosa sarà, la cifra stilistica più pregnante, quella capacità di “ridere in faccia alla morte”, di prenderla a parolacce (“col cazzo che muoio”, “voglio che tu guarisca, cazzo, e se muori sei uno stronzo sei un povero stronzo sfigato e io non piangerò una sola lacrima”) come avrebbe certo fatto un altro celebre autore segnato da questa malattia, il compianto Mattia Torre a cui il film è dedicato, e della cui verve sferzante e beffarda il film pare nutrirsi.
Presentando Cosa sarà al Festival del Cinema di Roma Kim Rossi Stuart ha raccontato che, mentre si giravano scene drammatiche “al cento per cento” sul set, lui ha sempre cercato di tenere d’occhio l’aspetto buffo di quello che stava accadendo. Mettendo a fuoco dunque, in modo non scontato, ma sicuramente interessante, quel che di ridicolo si può rilevare anche nelle occasioni più dure che la vita ci pone davanti. Così chiese a Bruni: “Ipotizzi momenti sopra le righe, espressione facciali da commedia del cinema francese o financo demenziale?”. Lui disse “possiamo provare a toccare quelle corde lì”. Così film è diventato il tentativo di restare in bilico su questi due registri. E per questo il mezzo con cui il film sceglie di affrontare il tema della malattia non è il classico drammone strappalacrime, bensì la ben più tortuosa strada del comedy drama, il dramma capace di strappare più di una risata ad un pubblico volutamente sottoposto a tensione e sofferenza.
Francesco Bruni torna insomma a parlarci di vita e morte, di padri e figli ignoti che si scoprono e si ritrovano, di rapporti, orizzontali e verticali, intergenerazionali (padri figli nonni) o intergender (uomini/donne), ma specialmente torna ad illustrarci, con leggiadria, le mille gabbie emotive in cui spesso nostro malgrado ci rinchiudiamo e dei sorrisi che aiutano a scioglierle dando libero sfogo alle emotività. E riesce a farlo anche attraverso la sapienza nella direzione di un cast di attori armoniosamente affiatati nelle loro idiosincrasie familiari: dalla moglie Lorenza Indovina, ai bravissimi figli Fotinì Peluso e Tancredi Galli, dalla severa ematologa Raffaella Lebboroni (moglie di Bruni nella vita), al padre Giuseppe Pambieri, la madre giovane Barbara Ronchi e l’esilarante infermiere barese Nicola Nocella.