Nel 2017 il mondo del gaming si vide sorpreso dall’arrivo di un nuovo videogioco, anticipato da numerosi trailer aventi protagonisti due curiosi omini con la testa a forma di tazza: Cuphead, un game run ’n’ gun in 2-D, creato e sviluppato dai fratelli Chad e Jared Moldenhauer per lo studio indipendente MDHR. La sinossi del gioco è molto semplice. Due fratelli, Cuphead e Mugman, perdono una scommessa a dadi contro il Diavolo al casinò dell’isola Calamaio; implorando pietà, i tre giungono ad un accordo: raccogliere le anime di ogni abitante dell’isola sotto forma di contratto per aver salva la loro vita. Da qui ha inizio un susseguirsi di boss-fight davvero ardue e dinamiche contro personaggi coloratissimi, folli e al limite della cattiveria che mettono a dura prova il giocatore, costretto a ricominciare tutto da capo dopo aver subito una snervante sconfitta.

La particolarità che ci interessa in questo contesto è il comparto grafico, una novità stilistica che include numerosi riferimenti ai lungometraggi e alle serie d’animazione dagli anni Trenta in poi; grafica, è bene sottolinearlo, tutta disegnata a mano fotogramma per fotogramma, nei più minimi particolari, sfondi tutti realizzati a colpi di acquerello e animazioni ottenute artigianalmente con il rotoscoping. L’innovazione, quindi, che Cuphead ha portato sul mercato dei videogiochi è la sua contestualizzazione in un’epoca del passato, per cui il giocatore si trova immerso in pratiche e modalità di visione puramente “vecchio stile”. Ispirati dalle opere di Ub Iwerks e Walt Disney, Cuphead e Mugman ricalcano nello specifico la fisionomia del primo Mickey Mouse e di Oswald the Lucky Rabbit: indossano dei pantaloncini (rossi il primo e blu il secondo)e un paio di scarponi, portano i guanti bianchi, l’apparato fisico è total black e le pupille degli occhi hanno quel tipico taglio angolare che conferisce profondità allo sguardo.

Anche le transizioni e l’estetica propria del videogioco rimandano ai prodotti anni Trenta, grazie all’utilizzo di raccordi e transizioni come l’iris e la dissolvenza a nero, oppure con il peculiare effetto “pellicola rovinata” che accompagna costantemente il giocatore nel corso dell’avventura. on appena si raggiunge un certo grado di abilità, una volta finito il gioco, è possibile sbloccare due modalità bonus. Sopraggiungono le possibilità di rendere la schermata di gioco in bianco e nero, oppure in modalità two-strip, quella gamma di colori (ciano e rosso) tipica del Technicolor Process Three impiegati nei film dal 1928 al 1933. Meritano una menzione speciale anche gli stili di lettering chiaramente conformi a quelli utilizzati da Max Fleischer per i cartelli della sua più famosa serie d’animazione Out of the Inkwell (da cui prende il nome, per l’appunto, l’isola Calamaio) prodotti dal 1918 al 1929.

Oltre ai due fratelli-tazza, il fiore all’occhiello di questo game sono il tripudio di creature fantastiche, animali, piante e oggetti antropomorfi che contengono numerosi cenni più o meno nascosti, come si è già detto, ai lavori di Disney e Iwerks, ai Looney Tunes, alle serie di Hanna & Barbera, alle Silly Simphonies, a Braccio di Ferro, Betty Boop, oppure altrettanti cammeo e apparizioni dichiarate (Porky Pig, il cavallo Orazio, gli scheletri della Skeleton Dance di Ub Iwerks, Picchiarello, Tobia Tartaruga, il pirata Bruto e molti altri).

La ricchezza di particolari e riferimenti alla storia dell’animazione che scaturisce dal lungo e faticoso progetto (ci sono voluti sette anni e due case ipotecate per portarlo alla luce) dei fratelli Moldenhauer è l’evidente risultato di un omaggio venuto dal cuore al cinema degli anni Trenta ed è un tipo di arte unico che guarda indietro al passato per parlare al presente.