Come si sa, la dagherrotipia fu il primo procedimento fotografico per sviluppare immagini. La sua fulminante parabola declinò quando si diffusero nuove e più pratiche tecniche. Tuttavia, molti artisti continuarono ad avvalersene, convinti che nell’impossibile riproduzione risiedesse il segreto della vera fotografia. È di questo avviso Stephane, fotografo di moda che, nei sotterranei di un grande palazzo decadente, continua a seguire il metodo originale anche a costo di far soffrire i suoi modelli, sottoposti ad infiniti tempi di esposizione. Il suo obiettivo è anche una folle ambizione: immobilizzandoli tenta di renderli immortali, mettendo alla prova la loro capacità di sopravvivenza. Il giovane Jean diventa il suo assistente, forte di un unico merito: non è un artista. S’innamora della figlia di Stephane, soggetto preferito del padre, che la costringe ad interminabili sedute di fronte al dagherrotipo. Ed entra in contatto con un immobiliarista, coinvolto in un affare di imprenditoria ecosostenibile, che vuole acquistare i terreni attorno alla villa.

Per il suo primo film fuori dal continente asiatico, Kiyoshi Kurosawa ha scelto la campagna di Parigi, bazzicando la capitale solo sporadicamente per questioni funzionali alla narrazione. Accreditandolo come maestro del J-Horror, diamo forse una coordinata fin troppo illuminante per decriptare questo thriller psicologico. Ma il titolo francese, La secret de la chambre noir, ci fa pensare immediatamente a La camera verde di François Truffaut, con l’ossessione per la morte del reduce di guerra a postulare quella per l’immortalare di Stephane. È un indizio, il primo di un’indagine lunga quanto l’intero film, che si regge su un’idea da subito comprensibile (leggi: prevedibile), ma che il buonsenso impone di non rivelare. Ciò che si può svelare senza problemi, invece, è l’omaggio che Kurosawa fa in gloria dei numi tutelari della storia, dalle suggestioni romantiche della letteratura gotica di Edgar Allan Poe alle inquietudini che fondano il cinema horror classico.

Quello di Kurosawa è un film sul vedere, che pone costantemente lo spettatore più smaliziato nella condizione di misurare di quanta credibilità sia capace il racconto fantastico. Il meglio lo dà nel far parlare gli spazi, nel suggerire come l’oscura stanza in cui Stephane si dedica alla sua opera-delirio esprima la consumata disperazione di un recluso (un reduce della vita…), ma anche la precisione dell’arredo del bagno e la minacciosa serra con i fiori appassiti a disseminare altre tracce nell’amorosa inchiesta.

Il problema, tuttavia, è l’assenza di un vero ritmo in grado di connettersi sia alle angosce devastanti dei due protagonisti: se di Stephane si comprende senza indugio l’ossessione nei confronti di qualcosa che infine accoglie non riuscendo più a sopportarne il lutto, di Jean non riusciamo a afferrare completamente le circostanze psicologiche che lo conducono in una dimensione di alterità alienante. Forse è il dagherrotipo ad immortalare anche lui: ma non essendo un modello ne subisce le conseguenze stando in sospeso tra immagine e realtà.