Jean Grémillon. Attorno a questo autore morto in disgrazia artistica quasi sessanta anni fa, c’è da qualche anno un’operazione di riscoperta davvero meritoria: occorre citare almeno la retrospettiva che Il Cinema Ritrovato gli dedicò nel 2012 e l’inserimento del malatissimo Zanne bianche nel poker di restauri prediletti scelti dal Leone d’oro alla carriera Bertrand Tavernier alla Mostra del cinema di Venezia 2015. Alla pari del coevo Jean Vigo, Grémillon è un autore maledetto, come pure dimostrano le traversie subite dalla sua Daïnah: prodotto dalla Gaumont, il lungometraggio fu massacrato dalla stessa produzione fino a diventare un mediometraggio, tanto da indurre il regista a ritirare la firma dal progetto. Pressoché dimenticato, ne è stato ritrovato un negativo alla Cineteca di Milano, durante i lavori i ricerca per il restauro di Zero in condotta.

Cosa turbava del film? C’è un momento in cui si ha chiara la percezione della sua dimensione problematica: è la serata in maschera, ove tutti gli invitati hanno il volto coperto ad eccezione della protagonista. È un elemento rivelatore che si collega al titolo stesso, allusivo all’incarnato della stessa protagonista: Daïnah è un film sulla doppiezza di una realtà apparentemente inequivocabile che trova la sua referenza oggettiva nelle facce dei personaggi. Sfidando convenzioni e costumi dell’epoca, Grémillon – che si basa sulla sceneggiatura del non ancora famosissimo Charles Spaak, tratta da un romanzo di Pierre Daye – colloca su un transatlantico figure desiderose, nel bene e nel male, di negare l’incasellamento a cui la società li obbliga. Daïnah è la sola a danzare senza maschera perché dichiara guerra al mondo sessualmente turbato dalla carica dinamitarda del suo erotismo, non solo attraverso i conturbanti movimenti del giovane corpo ma anche la pelle meticcia, segno plateale di un esotismo assai in voga nei desideri inconfessabili dell’epoca.

Suo marito gioca invece nel campo dell’ambiguità: è più nero di lei ma veste con elegantissimi completi bianchi, ed è perfino abbagliante nel suo candore quando deve far valere la sua presunta innocenza al cospetto degli ufficiali di bordo che indagano sulla scomparsa della moglie. Anche loro vestono di bianco, come se questo fosse il colore al di sopra di ogni sospetto, quella concretezza che il marito, da par suo, declina nella magia, la professione ad alto tasso di inafferrabilità che esercita di fronte a compagni di bordo spiritosi e razzisti («la sua è magia… nera!» dice una signora chiacchierona). Come egli sembra davvero invincibile o comunque non facilmente attaccabile, così al contrario il macchinista che Daïnah seduce è la vittima predestinata dell’intrigo perverso, troppo umano e fragile per poterne uscire vivo. La faccia è quella di Charles Vanel, torva ma affidabile, che deve sacrificarsi in nome del teorema di Grémillon secondo il quale solo chi si adegua al mondo mascherato può sperare di non esserne eliminato. Un apologo pessimista che dimostra quanto ancora ci sia da scavare dentro il suo cinema orgogliosamente etico, limpidamente inquieto, disperatamente romantico.