Nel 2000, Lars von Trier era già noto per essere un grande provocatore della settima arte e per il suo linguaggio filmico decisamente ostico e sperimentale. Pochi anni prima aveva fondato, insieme al collega Thomas Vinterberg, il movimento cinematografico chiamato Dogma 95, un compendio di regole per realizzare opere minimaliste (con l’impiego ad esempio di telecamera a spalla), che poi egli stesso in parte andrà a tradire.

Quando Dancer in the Dark viene presentato in concorso al 53° Festival di Cannes, per poi aggiudicarsi la Palma d’oro come miglior film, von Trier era circondato da diversi detrattori del proprio linguaggio filmico, i quali non hanno perso occasione per criticare negativamente l’opera considerandola eccessiva e manipolatoria, mentre una controparte entusiasta ne ha elogiato l’originalità stilistica e la forza espressiva.

Dancer in the Dark (nonostante le polemiche che da sempre hanno accompagnato la carriera di von Trier), ha ottenuto un grande successo di pubblico e di critica, complice anche la straziante e straordinaria performance della cantante Björk nel ruolo della protagonista Selma. Con quest’opera il cineasta danese, conclude il suo trittico denominato Trilogia del cuore d’oro, costituita (oltre che dal film in questione) dai precedenti Le onde del destino e Idioti.

Tre opere che sul piano stilistico cercano di aderire il più possibile al manifesto d’intenti Dogma 95, mentre su quello tematico vogliono esacerbare il martirio esistenziale di personaggi puri, che proprio a causa del loro candore finiscono in pasto ad un tragico destino. Tema poi ripreso anche nel successivo Dogville.

Il film racconta la disgraziata esistenza di Selma, una giovane donna ceca trasferitasi in America con il figlio Gene di dodici anni, la quale vive miseramente in una roulotte in affitto e lavora come operaia in una fabbrica. La musica è il suo unico spazio di fuga per poter sognare una vita più gratificante, ma una malattia degenerativa che la sta portando progressivamente alla cecità, farà precipitare la sua esistenza meschina in un abisso di pura tragedia senza via d’uscita.

Selma rappresenta la più tipica vittima sacrificale trieriana, gettata in pasto a una società mostruosamente avida, gretta e crudele, a partire dal proprietario della roulotte che la ricatta e che per errore verrà ucciso dalla donna con un colpo di pistola. Un mondo senza possibilità di salvezza che pare quasi la versione estrema e sperimentale del giansenismo cinematografico di Bresson.

Il malessere esistenziale e fisiologico che affligge la protagonista, si evince fin dalle scelte cromatiche (fotografia di Robby Müller), con viraggi in seppia e colori sgranati, ma anche dall’impiego ossessivo della camera a mano eccetto nei momenti in cui Selma canta e balla, dove si ricorre a più macchine da presa in contemporanea (addirittura 100 nella sequenza del treno).

Lars von Trier stesso ha definito Dancer in the Dark un anti-musical, e lo è a tutti gli effetti, procedendo vero una decostruzione estetico-narrativa del musical classico hollywoodiano. I colori e l’energia ottimistica di uno dei generi sovrani della Hollywood classica, vengono sostituiti da tonalità grigio-scure e da un’implosione performativa, sia nelle canzoni originali di Björk (di matrice noise) che nel ripercorrere le hit più note del cult per famiglie Tutti insieme appassionatamente.

Di per sé il kolossal musical-sentimentale di Robert Wise, dietro una superficie edificante, nasconde un’anima inquieta e perturbante (la guerra, il nazismo, la paura di diventare adulti), che von Trier intercetta perfettamente all’interno della propria rilettura dei brani musicali, esasperandone il lato più straziante fino alla nullificazione attraverso il buio della cecità.