Se mai il cinema argentiano necessiti ancora di essere soggetto alla ricerca di una morale o di una delucidazione ideologica che ne renda comprensibile la poetica, questa viene esplicitata attraverso le parole con cui lo stesso autore esordisce nel documentario Dario Argento: soupirs dans un corridor lointain. Introducendosi allo spettatore, il celebre cineasta romano si autodefinisce come un regista di film “di genere”, specificando nell’istante successivo che questa sia una classificazione riservata esclusivamente ai suoi interlocutori, in quanto egli non sappia trovare un modo univoco attraverso cui definire il proprio processo creativo e per esteso i frutti del suo lavoro. Per questa ragione le opere che compongono la filmografia di questo autore difficilmente si sono prestate ad analisi tematiche soddisfacenti; tra i motivi che favorirono le principali resistenze critiche incontrate all’epoca degli esordi. Gli incubi di Argento sono figli dell’aggressivo subconscio di un uomo dal carattere fragile, frustrato da perenni stati di insicurezza sovrapposti ad una volontà di ribellione nei confronti di un ordine precostituito.
Una personalità tumultuosa che nell’arte cinematografica ha da sempre trovato il proprio luogo di pace, rifugio sicuro dalle prevaricazioni del mondo esterno e limbo nel quale esorcizzare le proprie paure attraverso la meraviglia del racconto. Ancor prima dello slancio politico e dell’inquieta introspezione psicologica, il comburente che alimenta la fiamma del cinema di Argento è rappresentato da una pura ed insaziabile passione cinefila. Sentimento che poggia le proprie robuste fondamenta su un approccio elementare all’arte della narrazione, insito in un senso di ammirazione fanciullesca immutato nel corso del tempo. Su questa disarmante semplicità pare soffermarsi con maggior interesse l’attenzione di Jean-Baptiste Thoret, il cui scopo in questo documentario è quello di definire la persona oltre l’icona e di restituirla allo spettatore come unica ed insospettabile fonte di creatività. Uno sguardo che intercetta il regista in due periodi distinti della sua vita, mettendone a confronto le minimali differenze per evidenziare invece la persistenza dell’indole pacata e teneramente ingenua.
Argento ci viene mostrato dapprima nel febbraio del 2000, periodo in cui stava finalizzando la realizzazione di Non ho sonno (2001), per poi compiere una netta ellissi temporale e presentarcelo nuovamente 19 anni dopo, nello stesso mese del 2019, a quasi sette anni di distanza dal suo ultimo film (Dracula 3D, 2012). La macchina da presa di Thoret lo segue nel suo vagare apparentemente routinario ed immotivato che si rivela poi essere un viaggio nei luoghi romani intrisi del suo cinema, i quali diventano spunti per la rievocazione di storie ed esperienze passate. Un breve soggiorno presso la Biblioteca Angelica che costituì uno degli sfondi del suo Inferno (1980) consente quindi una digressione sull’interesse da parte di Argento nei confronti degli scritti occulti ad alchemici che hanno ispirato e nutrito la saga de Le tre madri. Allo stesso modo ripercorrere il quartiere dell’EUR, altro luogo da lui spesso designato come fondale per le proprie storie, vira il discorso sulle discrepanze politiche che affliggevano la sua famiglia (fu suo zio, integerrimo fascista, ad illustrargli per la prima volta le bellezze del quartiere). Pur essendo un sessantottino della prima ora, Argento non nasconde il fascino che l’imponenza dell’architettura fascista esercita su di lui, denotando come l’unica ideologia a cui resti totalmente fedele sia l’Arte in ogni sua forma.
Tutto viene inscenato attraverso uno sguardo indulgente, con un probabile eccesso contemplativo dato il carattere modesto del personaggio descritto ed alcune puerili cadute di stile. Su tutte il tentativo di omaggiare il vorticoso piano sequenza attraverso cui venne rappresentato il duplice omicidio di Tenebre, goffamente parafrasato da Thoret all’interno della villa che ospitò il film del 1983. Al netto di alcuni passi falsi va però reso atto a questo documentario di aver saputo scindere il maestro dello “giallo all’italiana” dall’uomo troppo spesso dimenticato dietro a quel titolo, avergli donato una giusta voce ed un’adeguata rilevanza nell’insieme di immagini, testimonianze e misteri che compongono il mito di Dario Argento.