Nata in occasione di Paterson, la retrospettiva dedicata a Jim Jarmusch dalla Cineteca di Bologna è un’ottima scusa per occuparsi nuovamente dei suoi film. Abbiamo chiesto a Lapo Gresleri e al gruppo di Leit Movie di parlarci musicalmente di alcune sue opere, oggi tocca a Dead Man.
Più dei precedenti lavori di Jim Jarmusch, Dead Man è un film squisitamente sonoro. Un western che sul piano tecnico – rifiutando gli stilemi classici – si focalizza sulla componente uditiva, facendone elemento centrale della messa in scena. Questo è evidente sin dalla sequenza di apertura. Sul treno che conduce il protagonista William Blake a Machine, i primi cinque minuti giocano sullo scambio di sguardi tra il ragazzo e gli altri passeggeri, i rumori metallici del convoglio e le distorsioni elettriche della chitarra di Neil Young.
Riducendo i dialoghi all’essenziale, accentuando suoni e rumori e rinunciando all’uso epicizzante della musica tipico del genere (basti pensare alle muscolari orchestrazioni associate alle cavalcate di John Wayne), Jarmusch fa così approdare un filone cinematografico da tempo in crisi a un territorio nuovo, “altro”, un po’ come Blake in fuga da se stesso, o meglio, da quello che i suoi persecutori vedono in lui. L’atmosfera onirica e surreale che pervade la trama, costruita su brevissime scene intervallate da dissolvenze come un lungo sogno a più riprese, è dunque funzionale a trasmettere anche sul piano visivo la medesima sensazione di scollamento da sé, per immergere totalmente lo spettatore nell’incubo a occhi aperti vissuto dal personaggio principale.
L’allucinazione sensoriale di Blake è allora, come suggerisce il compagno di viaggio Nessuno, il mezzo per raggiungere un’altra dimensione, il passaggio obbligatorio per continuare il proprio viaggio in un ignoto e metaforico aldilà. Psichedelia e New Age si fondono in Dead Man, sul piano concettuale quanto su quello della minimale colonna sonora proposta in una costante variazione del suo tema principale. Con riff ossessivi e fortemente cadenzati, la musica di Young viene a farsi ideale commento alle immagini, in un accostamento a volte di ironico (l’essere fuori luogo di Blake), di contrappunto (le improvvise esplosioni di violenza) o, come espresso nel finale, di accompagnamento.
È qui, per la prima volta, che le aspre e scarne sonorità dell’autore canadese lasciano il posto a una melodia in cui il fraseggio graffiante della chitarra elettrica è accompagnato dal suono più dolce e ritmico di un’acustica, in una percezione di apertura sottolineata dall’unico campo lunghissimo del film a riprendere l’orizzonte: il viaggio è compiuto o forse è appena cominciato.