Sarà che è una pomeridiana ma siamo davvero in pochi nella sala dove sono venuto a rivedere Decision to Leave. Dopo meno di un quarto d’ora siamo ancor meno: una coppia arrivata in ritardo torna sui suoi passi quando si accorge di aver sbagliato sala (dai bisbigli capisco che devono vedere Everything Everywhere All at Once al piano di sotto) e un signore seduto dietro di me si alza borbottando che «no, è troppo complicato».

Mentre costoro si avviano alla porta penso a quanto sia indispensabile andare al cinema per condividere certe esperienze con gli altri spettatori, che nell’oscurità incompleta concessa dal proiettore hanno il diritto di essere ogni volta amanti delusi, distratti, complici o infedeli a seconda di quel che compare sullo schermo. Penso poi – io che, avendo già visto il film, credo di sapere cosa mi aspetta – che in effetti il mio arrendevole vicino non ha torto.

L’undicesimo film di Park Chan-wook, mi dico, è senz’altro complesso e sfuggente, lo ricordo come un puzzle di cui solo alla fine si scopre di aver perso da subito un pezzo, considerato poi che interpola – un po’ alla Preminger – detective story (l’indagine sulla morte di un uomo condotta da un detective coreano affetto da insonnia cronica e sposato con un’ingegnere nucleare fissata con le statistiche e la medicina naturale) e melodramma dell’ambiguità (la passione del poliziotto per l’elusiva vedova cinese del defunto, unica sospettata di un omicidio che forse, però, è un suicidio).

Lo fa attraverso dialoghi in cui almeno uno dei personaggi mente (ma quale?) e un montaggio ipotattico di indistinguibili analessi e prolessi perfezionato dal regista nel precedente Mademoiselle e in La Tamburina, la serie di spionaggio del 2018 tratta da un romanzo di le Carré. Inevitabilmente, come solo accade negli innamoramenti più vagheggiati e rischiosi, dopo due ore sono stato smentito.

Non perché in Decision to Leave non si ritrovino lo stile affilato e gli implacabili ingranaggi narrativi tipici delle sceneggiature di Park, tra magistrali colpi di scena (Old Boy), amore struggente (Thirst), apoteosi della menzogna (Joint Security Area), impensabile ironia (I’m a Cyborg, But That’s OK), romanticismo della violenza (Mr. Vendetta e Lady Vendetta), sorretti da un cadrage di piani quasi impercettibilmente inclinati, rivelatori carrelli all’indietro e zoom improvvisi, oltre che impreziositi dalla recitazione tutta sguardi di Tang Wei (già ineffabile seduttrice in Lussuria di Ang Lee) e Park Hae-il (chi lo ha apprezzato in Memorie di un assassino e The Host sarà felice di saperlo ospite speciale del Florence Korea Film Fest, che inizio aprile gli dedicherà una rassegna di sette film).

Ma – dicevo – alla fine del film realizzo che l’impaziente spettatore alle mie spalle non ha affatto ragione perché si tratta invece di un film che solo apparentemente nasconde e confonde i moventi dei due protagonisti. In fondo è la storia di un caso irrisolto che diventa una storia d’amore che è ancora un caso irrisolto, ispirata alle atmosfere della serie di dieci romanzi procedural che hanno per protagonista l’ispettore svedese Martin Beck (e infatti stanno impilati sulla scrivania del suo collega coreano).

Non solo fin dall’inizio non manca alcun pezzo del puzzle, ma tutti i tasselli necessari a completarlo vengono man mano messi sotto gli occhi dello spettatore. Semplicemente non sono ancora al posto giusto. Rivedendo il film ci si accorge che ciascuno di essi compare una seconda volta quando, invertite le parti tra il detective e la donna, i personaggi si scambiano oggetti (l’orologio, la bottiglia di liquore, il burrocacao) o credono di vederne altri sdoppiati (il vestito sia verde che blu, i bottoni simili a pastiglie di fentanyl), imitano a vicenda i gesti altrui (la posizione delle mani, lo scrocchio delle dita), ripetono o riascoltano parole già pronunciate (registrazioni vocali, dialoghi di film visti in televisione), magari insistendo sulla distanza tra il cinese e il coreano.

Come per il picco della montagna da cui è caduto il marito di Song Seo-rae, che ha lo stesso profilo del mucchio di sabbia abbattuto dall’alta marea nel finale, in certe inquadrature fintamente neutre Park dissemina indizi per la soluzione dell’indagine e soprattutto segnali dell’inganno amoroso che tornano nelle scene più cariche di pathos, riportando Decision to Leave ai temi fondamentali della sua filmografia: l’artificio sistematico della vita, l’illusione imprescindibile al sentimento, la necessità di non sapere e l’impossibilità di non chiedere.

Molte sequenze trasmettono la sensazione sepolta del déjà vu, l’impressione suggestiva e preoccupante a un tempo di aver già vissuto quel momento in circostanze diverse, perché effettivamente alcune componenti visive o verbali sono passate sullo schermo in precedenza. Come fossero proiezioni dei rimpianti di un uomo che desidera ritrovare un amore interrotto, e insieme lo teme, e per questo stenta a credere a quel che per mestiere è costretto a scoprire.

Ma quanto più il dubbio a proposito resta sommerso tanto più monta il presentimento di aver davvero già visto quel che accade, fino all’apice della ripresa angolare del ristorante in cui l’ispettore Jang Hae-joon è rimasto solo a bere: sulla parete in fondo è appeso un quadro che riproduce, pressocché identica, la panoramica crepuscolare sulla spiaggia di rocce e sabbia che chiude il film. Quando manca più di un’ora (e nel film più di un anno) al momento in cui verrà presa la decisione di andarsene del titolo, lo spettatore conosce già lo scenario che la renderà possibile, anche se non può saperlo.

Oppure, in un film la cui semplicità è sconvolgente proprio perché la si vorrebbe negare fino all’ultimo, non vuole ammetterlo.