“La libertà di fare una morte di merda a 40 anni!” obietta l’adolescente Walter al padre Antonio che quella morte l’ha appena fatta e cerca di convincere il figlio che la strada da delinquente intrapresa arriverà, alla lunga, a privarlo della libertà. Per questo lui ha deciso di cambiare vita, da criminale/squalo quale era, ha messo la testa a posto ed è andato a fare l’operaio. Il figlio, al contrario, vuole diventare uno squalo e non morire a 40 anni in un incidente sul lavoro come è toccato proprio ad Antonio.

Ma nell’originale film d’esordio di Davide Gentile c’è anche uno squalo vero e proprio con pinna e denti, che vive in una piscina di una villa sul litorale ostiense di proprietà di un boss locale, il Corsaro. Solo in apparenza abbandonata, la villa è un luogo di rifugio dal dolore e di passaggio dalla paura alla maturità, dove Walter trascorre giornate intere insieme al nuovo amico Carlo, che lo introdurrà a pericolose avventure criminali.

Prodotto tra gli altri da Gabriele Mainetti che ha anche avuto il ruolo di direttore artistico e co-autore delle musiche, Denti da squalo è tutto giocato su una stratificazione di significati simbolici, oltre che dal referente concreto. Così lo squalo viene a rappresentare la paura del vivere, la violenza che dobbiamo impersonare per farci rispettare, ma anche il suo contrario, l’anelito verso la libertà e il rifiuto di costrizioni e modelli sociali. Allo stesso tempo, lo squalo è anche un personaggio della narrazione a cui imprime una svolta finale certamente di presa emotiva, pur se non molto credibile.

Ricco di riferimenti cinematografici, Denti da squalo è un film di formazione che propone al protagonista vari riti di passaggio fino a quello decisivo nel finale che segnerà la sua acquisizione di consapevolezza e responsabilità verso l’età adulta. L’ambizione del regista e degli sceneggiatori è stata quella di tenere sempre in equilibrio simbolismo e indagine sul reale.

Un equilibrio non semplice da mantenere per quasi due ore e che riesce meglio nella prima parte con la fascinazione della scoperta dello squalo e dei luoghi della villa, mentre segna un po’ il passo quando entra in gioco la vicenda criminale. Lo stesso Gentile ha dichiarato di essere stato più interessato alla dimensione di elaborazione del lutto e di crescita personale del film piuttosto che alla narrazione della possibile carriera da boss della malavita di Walter.

Certamente Denti da squalo è un film interessato anche alle periferie; sempre Gentile ha citato come modelli i fratelli Coen e il Martin McDonagh di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) in quanto “registi delle periferie”. Ancora una volta, però, l’interesse è più verso l’immaginario, dai riti violenti o simbolici della banda al racconto del Corsaro di “uno squalo che non fa più paura”, che non verso l’indagine documentaria in senso stretto. Se poi il personaggio del Corsaro è interpretato da Edoardo Pesce, già interprete di Simone in Dogman (2018), l’immaginario di Denti da squalo diventa anche meta-cinematografico.

Questa dimensione immaginaria e immaginata è la parte migliore del film, tanto che vorremmo vedere di più il padre in scena e capire meglio il suo rapporto con il Corsaro, anche se forse il coinvolgimento emotivo che provoca la figura di Antonio si deve, oltre alla efficace recitazione di Claudio Santamaria, proprio al sapiente dosaggio delle sue apparizioni. Più difficile il compito per Virginia Raffaele, alle prese con un personaggio di madre di periferia già visto, ma che l’attrice affronta con energia riuscendo a darle credibilità.

I due giovani protagonisti, Tiziano Menichelli e Stefano Rosci, sostengono il film con una prova convincente che conferisce al loro rapporto sullo schermo la necessaria complicità.